“TiSin e salari”, un filmaccio
Sul salario minimo una brutta storia, protagonisti un sindacato giallo e chi lo sostiene facendo finta di non capire la differenza tra libertà di impresa e libertà di sfruttamento
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Sul salario minimo una brutta storia, protagonisti un sindacato giallo e chi lo sostiene facendo finta di non capire la differenza tra libertà di impresa e libertà di sfruttamento
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Sul salario minimo una brutta storia, protagonisti un sindacato giallo e chi lo sostiene facendo finta di non capire la differenza tra libertà di impresa e libertà di sfruttamento
Se ci fosse un manuale di sceneggiatura per la gestione degli scandali cantonali, la figuraccia di TiSin vi meriterebbe lo spazio e l’attenzione che si dedicano a un film di culto: tutte le sue scene e i suoi dialoghi, almeno fino a questo momento, sono talmente esemplari che resta solo da decidere se il finale debba virare al thriller o alla farsa.
La trama, per sommi capi: un finto sindacato leghista cerca di aggirare la nuova legge sul salario minimo – votata anche dalla stessa Lega – inventandosi un contratto collettivo altrettanto fasullo, scarabocchiato dalla mano dei padroncini e degli enfant prodige di via Monte Boglia. Sindacati (veri) e altri politici si accorgono della falla nella legge e cercano di correre tardivamente ai ripari con un’iniziativa che impedisca certi trucchetti. Il successo della raccolta firme è notevole, possibile sintomo di un malcontento diffuso, anche se non è detto che sortisca risultati concreti in tempi brevi. Dissolvenza.
Panoramica orizzontale, ‘in un paese lontano lontano…’, come nelle fiabe. Galoppini più o meno noti corrono in soccorso degli amici finiti sotto i riflettori. In una surreale operazione a metà fra la destrutturazione cognitiva e il più pedestre depistaggio, si alzano voci sempre più garrule per convincerci che è tutto normale, non è successo nulla di grave, il problema è altrove. La scena, all’inizio, ricorda quelle vecchie comiche in cui un monello sorpreso dal preside cerca di nascondere la sigaretta nella tasca dei pantaloni, con quel che ne consegue. Poi però l’intreccio si fa più articolato e il mozzicone si cerca di spegnerlo direttamente sulla nuova legge, giudicata estrema e pericolosa (le stesse note di regia usate per bloccare qualsiasi riforma: il salario minimo, la transizione energetica, perfino la bizzarra pretesa di non fomentare il tabagismo tra i minori, sempre tutto ‘estremo e pericoloso’). Così i protagonisti incappati nel fortunale – in questo caso, in primis, capogruppo e vicecapogruppo della Lega in Gran Consiglio – possono abbandonare il set imboccando la porta sul retro, fischiettando come se nulla fosse.
Piano sequenza. Mentre qualcuno spera di rendere più solida una piccola legge che non salverà il lavoro come pretendevano i promotori, ma è un segnale per chi non vede la differenza tra libertà d’impresa e di sfruttamento, i solerti difensori dello status quo si sfilano la grisaglia e si sbracciano a lanciar fumogeni. Il salario minimo è presentato come un “grande inganno” che in ogni caso “va soprattutto a vantaggio dei lavoratori frontalieri”, i quali “ovviamente meritano rispetto”, e magari una pacca sulla spalla se fanno i bravi, ma guai se per tutelare i diritti di tutti gli si paga più d’una manzoniana luna di polenta. Con parole grevi s’insinua l’equivalenza tra i sindacati gialli come TiSin e quelli che bene o male rappresentano ancora i lavoratori, “perché il sindacalismo sarà idealmente una missione, ma è concretamente un business”. In preda a visioni ortopedico-botaniche si esorta addirittura a “tagliare al piede” l’“albero storto” della legge, come se le nuove, modeste retribuzioni potessero davvero mettere in ginocchio aziende che non siano già decotte. Monologhi che un tempo avremmo trovato solo sui domenicali più arruffapopolo ora finiscono ovunque, perfino sulla prima d’un quotidiano, nella fretta di chiudere il film con un’altra formuletta fiabesca: e vissero tutti felici e contenti. Titoli di (reggi)coda.
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