Dov’è, o sinistra, la tua vittoria?
Su una pagina a pagamento la stupefacente tesi dell'Avv. Tettamanti, ma il trucco si vede: dal vanto del cigno al lamento del coyote
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Su una pagina a pagamento la stupefacente tesi dell'Avv. Tettamanti, ma il trucco si vede: dal vanto del cigno al lamento del coyote
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Su una pagina a pagamento la stupefacente tesi dell'Avv. Tettamanti, ma il trucco si vede: dal vanto del cigno al lamento del coyote
Se proprio vogliamo navigare nelle metafore, ruotanti attorno alla stessa persona, un finanziere d’alto bordo che campeggia nel Ticino, avremo il canto del cigno che diventa “vanto”, ma anche l’ululato del coyote che diventa “lamento” (pare che nella notte pianga le prede mancate di giorno). Con il vanto si è fatto festa alla RSI e qui se ne è parlato. Il lamento è stato pubblicato come “pubbliredazionale” a pagamento dai quotidiani ticinesi con il titolo categorico “La sinistra ha vinto”.
La prima verifica è un po’ fantozziana. Sia l’uomo di sinistra sia quello di destra sbatteranno il pugno sul tavolo e, come il mitico ragionier Ugo Fantozzi dopo che aveva scoperto le “letture maledette”, finiranno per esclamare esterrefatti: “Ma allora mi han sempre preso per il culo!”.
Quello di destra perché non si è ancora accorto che la sinistra ha vinto e deve affrettarsi a far le valigie per Monaco o Panama (se non l’ha già fatto per altri motivi più sinistri). Quello di sinistra, più tonto che mai, o perché troppo occupato a litigare con gli altri compagni o perché riconta le posizioni nei parlamenti nazionali, cantonale o comunali e riesamina tutto quel che gli capita attorno, nella politica come nell’economia, dal posto di lavoro alle batoste elettorali, deve ammettere che non si è per niente accorto di aver vinto. Quindi, o gli han falsato la geografia o contraffatta la sinderesi politica.
Poi, in seconda istanza, nasce un atroce dubbio: non è che si ricorra al “tafazzismo” per ingannar le menti? Tafazzismo: propensione a lamentarsi, ricavandone piacere. E cioè: facciamo credere che noi di destra siamo perdenti e che la sinistra domina dovunque; inganneremo la sinistra a continuare come ora… ed è sempre festa per la destra. Questa strategia è applicata ad esempio con successo nei confronti della RSI: bolliamola, con stillicidio continuo, come levogira e avversa alla destra: le inoculeremo un complesso destrorso colpevolizzante che la renderà timorosa e generosa in interviste gloriose e sfottenti.
Veniamo alle cose serie. La predominanza della sinistra, stando al lamento, sarebbe partita dalla Scuola di Francoforte, che fu anche matrice del ’68 e “della quale ancora oggi vi sono ampie tracce”. E via con una sequenza di nomi che hanno nutrito e poi alimentato la “sinistra progressista”. Per farla breve, potremmo cogliervi tre tormenti destrorsi: il dominio ideologico sinistrorso che è molto più determinante del puro potere economico; la società liberal-democratica (neoliberale) che sarà minata e decostruita dall’interno, per accedere al potere; “rivolta dei discriminati” (con la perenne critica all’ingiustizia) determinante per accedervi. Oggi saremmo alla “dittatura del discorso assunta dalla maggioranza discriminata” (che non permette più di discutere, anche perché il conservatore è considerato fascista camuffato, il moralismo ha il sopravvento ovunque, l’analisi e il giudizio sono sostituiti dal pregiudizio). Conclusione, quasi apocalittica, del lamento: “tutti coloro che si sentono discriminati sono strumentalizzati dal progressismo marxista, non rendendosi conto di ciò, e stanno contribuendo alla proliferazione della tesi post-marxista. È ora che i partiti «borghesi» si riprendano dalla confusione ideologica riconoscendo quali sono le tesi contro le quali battersi”.
Una piccola annotazione storica, quasi tragicomica. È interessante rilevare come della Scuola di Francoforte si fanno tutti i nomi tranne quello di Herbert Marcuse. Il quale, capitato proprio nel ’68 come un referente nel rapporto sulla legge urbanistica (1968-69) per tentare di capire ciò che stava avvenendo nel mondo, subito demonizzato come destrutturante, servì come utile pretesto infamante per denunciare la legge, voluta oltretutto da un serio liberale, Franco Zorzi, e per affossarla. Quindi, proprio a causa di un esponente della Scuola di Francoforte… si seppellì un liberale e si stesero tappeti all’economia a rimorchio della speculazione edilizia e degli affaristi immobiliari (“gnam gnam”, li chiamava il Bianconi) foraggiati dai capitali in fuga dall’Italia democristiana. Uno dei grandi paradossi cantonali. Infatti così, grazie anche a un esponente della Scuola di Francoforte che ce l’aveva con “l’uomo a una dimensione”, criticando tanto il capitalismo quanto il comunismo, più che “ampie tracce di sinistra” son rimasti ampi scempi territoriali.
C’è però un’altra dimenticanza. È talmente enigmatica e grave che nasce il sospetto che sia voluta ai fini di rendere più credibile il lamento e meno colpevole la trascuratezza degli imbambolati partiti “borghesi”. La Scuola di Francoforte sta quindi nel gozzo, come lisca di pesce e come principio del male sinistrorso e causa della vittoria della sinistra. Si dimentica però bellamente una fucina creatasi in Svizzera che ha rifuso, diffuso nel mondo, inscatolato senza alternativa storica, imposto in maniera totalitaria dagli anni ’70-’80 in poi, ipnotizzato o disfatto persino la sinistra francofortiana, quello che viene comunemente definito neoliberismo.
L’operazione è partita da più lontano, è vero, da quando Friedrich von Hayek nel 1947 chiamò a raccolta sul Mont Pèlerin, poco distante da Montreux, un gruppo di 38 economisti e altri intellettuali (tra cui gli ormai famosi Allais, Eucken, von Mises, Fridman, Popper) che fondarono la MPS (Mont Pèlerin Socitey) che, via via moltiplicatasi, sparsasi in tutto il mondo, ha occupato tutti gli spazi possibili nelle università, nei governi, nelle organizzazioni internazionali (Fmi, Ocse, Banca mondiale, Organizzazione commercio mondiale), producendo migliaia di saggi e di libri, sequestrando i Nobel per l’economia, portandovi l’essenza del neoliberalismo (poi subito neoliberismo). E cioè, in termini spicci ma sufficienti per capire: la liberalizzazione del movimento dei capitali e delle merci, la superiorità fuori ogni discussione (e totalitaria) del libero mercato con la competitività portata all’ultimo sangue; la messa in concorrenza dei lavoratori, ridotti solo a un costo, con le dislocazioni produttive là dove i salari sono più bassi; la riduzione del ruolo dello Stato; la deregolamentazione economica e finanziaria; la privatizzazione dei servizi pubblici (posta, telefoni, energia ecc.); la credenza che la ricchezza, se facilitata dalle esenzioni fiscali, sgocciola come miele dall’alto verso il basso favorendo tutti e che la globalizzazione del mercato con capitale e merci eliminerà disuguaglianze e povertà.
Due caratteristiche segnano l’egemonia di questa cultura emanata dalla MPS:
La prima è la dismisura della vittoria su ogni altra corrente di pensiero, tanto da poter sostenere che non c’è alternativa. Pensiero unico, totalitarismo, dogmatismo persino metafisico, tanto si è fatto religione. Altro che vittoria della sinistra, se la sinistra è il contrario di tutto questo! Persino il keynesismo, un arcinemico per la MPS, è stato ridotto alla insignificanza (risuscitato in parte, per disperazione, dalla pandemia, che senza il ricorso allo Stato, ai suoi interventi finanziari, all’effetto moltiplicatore della sua spesa, chiamati in soccorso anche dai neoliberisti, sarebbe stata una catastrofe completa). A forza di liberalizzazioni ispirate a quella “cultura”, il sistema finanziario -in cui guazzano i nostri finanzieri e si attruppano milionari e miliardari- domina la politica, tanto nazionale quanto cantonale, non meno dell’economia.
La seconda caratteristica della cultura economica neoliberale dominante, formato MPS, è la sua inverosimile resistenza alle pesanti confutazioni che la realtà le infligge da almeno vent’anni, nonostante un susseguirsi continuo di crisi che hanno reso i ricchi più ricchi e i poveri (i famosi “discriminati”?) più poveri. Fatto emerso ancora in maniera paradossale e incontrovertibile anche con la crisi pandemica (si veda qui l’articolo di Lelio Demichelis).
Dov’è quindi, o sinistra, la tua vittoria? Ci si può piuttosto chiedere come mai le sinistre svizzera o europee, comunque denominate, siano piuttosto state travolte senza opporre grande resistenza all’offensiva egemonica, totalizzante e totalitaria, del neoliberismo targato Mont Pèlerin. Chi sa dove li trova, il nostro lamentoso coyote, il dominio ideologico della sinistra, la dittatura del discorso dei discriminati, la rivolta dei discriminati, la decostruzione della società liberalliberista, la presa del potere, la strumentalizzazione del progressismo marxista, persino il sopravvento del moralismo il quale richiederebbe, per esserci e per logica, il senso della vergogna, che non c’è più.
Aldilà di tutto, del lamento senza senso e realtà, di una pretesa vittoria proclamata per strategia pacchiana, dell’interrogativo che interroga anche la pochezza della parte avversa, rimangono forse due ragioni da perlustrare.
La prima, per non essere pessimisti, è che l’ideologia, ferreamente e disumanamente impostaci negli ultimi quarant’anni e che ci stanno propinando ancora, non ci offre nessun futuro, e stiamo accorgendocene e presto saremo obbligati a un bilancio senza riserve o fughe per la tangente. Non è un’ideologia di speranza, brandisce solo la minaccia della bancarotta e della rovina. Pensiamo anche solo all’ambiente: ogni giorno, rivestendosi di ipocrite sostenibilità economiche e finanziarie, tanto per continuare come e peggio di prima ricavando soldi dai soldi, ci sottraggono il futuro del nostro pianeta e dei nostri figli.
La seconda è che non è dai parlamentari e tanto meno dalla ritrovata memoria dei borghesi che dobbiamo aspettarci un futuro o un miglioramento: tutte le riforme del mondo hanno sempre avuto un origine extraparlamentare. Tutt’al più i parlamentari o i governi, benché per loro ogni iniziativa vada sempre troppo oltre, finiscono solo col ratificare a malincuore misure che gli possono imporre movimenti di cittadini, la piazza, gli scioperi o i “tumulti” per usare il linguaggio di Machiavelli. Non è un caso se anche la democrazia si sta interrogando.
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