Un amore a Pechino ai tempi della Rivoluzione Culturale
Tradotto in italiano il sorprendente libro autobiografico di Jean François Billeter, giovane svizzero approdato in una Cina ermeticamente chiusa al resto del mondo negli anni ’60
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Tradotto in italiano il sorprendente libro autobiografico di Jean François Billeter, giovane svizzero approdato in una Cina ermeticamente chiusa al resto del mondo negli anni ’60
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L’incontro che segnerà per sempre la vita del professore emerito dell’Università di Ginevra (il 7 giugno ha compiuto 84 anni) avviene nel 1963. Dopo la licenza in lettere nella città di Calvino, non sa bene quale strada prendere: per un annetto esita, annusa, si barcamena. Poi i genitori gli fanno capire che è ora di decidere. A Parigi affronta lo studio del cinese (“era un gioco, un modo per rinviare le scadenze”) e chiede di incontrare Gilbert Etienne, illustre sinologo svizzero. Senza giri di parole, questi gli dice, più o meno, “lei non dovrebbe essere a Parigi, ma a Pechino”. In piena Guerra fredda, il pianeta Cina degli anni Sessanta è ermeticamente chiuso su se stesso, o meglio aperto solo ai pochi alleati comunisti: l’Unione Sovietica e il blocco dell’Europa dell’Est, la Corea del Nord, il Vietnam, il Laos, la Cambogia, la Somalia.
Nella Repubblica popolare gli occidentali sono pochissimi, osservati con sospetto, controllati. Billeter non si scoraggia, anzi decide senza esitazioni di affrontare l’avventura. Ottiene il visto e una borsa di studio e a fine agosto affronta il lunghissimo viaggio in treno. Budapest, Mosca, poi in Transiberiana fino a Pechino attraversando le deserte lande russe e mongole (“Ero all’apice della felicità: era Il giro del mondo in 80 giorni, il mondo era mio, avevo 24 anni”). Quando arriva nella capitale cinese viene accolto da una musica che gli ricorda quella greco-ottomana: “Da un capo all’altro del vecchio mondo c’era una continuità”.
Trova una Pechino che oggi non esiste più, tradizionale, a tratti arcaica: mura, porte, mercati rionali ad ogni angolo di strada e migliaia di bimbi che giocano sulla pubblica via. Semplicità e serenità, ma anche diffusa povertà acuita dalle ripetute carestie che lasciano sul campo milioni di morti. Naturalmente nessun giornale occidentale, nessuna TV, impossibile telefonare a casa. Insomma, all’oscuro di quanto accadeva fuori da quella bolla in cui il giovane svizzero ha deciso – più o meno inconsapevolmente – di isolarsi.
Jean François ha dei compagni di classe cinesi, con i quali gli è però vietato avere contatti che vadano oltre un saluto. Trova una sangallese, la signora Li, ben addentro al mondo diplomatico, e una sera accetta il suo invito ad una festa danzante. È attirato da una ragazza: “Durante il secondo o il terzo ballo ho dato una tiratina alla bella treccia nera che le scendeva lungo la schiena. Si è fermata di colpo, stupefatta, e abbiamo riso, poi abbiamo ripreso a ballare”. Eccolo (descritto a pag. 17), l’Incontro che dà il titolo al libro. Casuale, come in condizioni normali se ne fanno tanti, ma unico: quasi senza dichiararsi e senza conoscersi, i due decidono che sarebbero diventati marito e moglie. Il libro autobiografico è il racconto di questo sorprendente coup de foudre per la giovane dottoressa, di questo amour fou, della loro determinazione ad andare avanti tra mille peripezie, difficoltà burocratiche, più o meno discreti pedinamenti, incontri semiclandestini in periferia, lunghissimi periodi in cui i due non possono vedersi: un po’ thriller, un po’ Kafka, in un Paese che sta per vivere la Rivoluzione culturale con cui, nel 1966, Mao riprenderà il pieno controllo del Partito e dello Stato.
Un incontro a Pechino si gusta in poche ore: un centinaio le pagine, tre i capitoli. Il primo, essenziale. Il secondo descrive il ritorno della coppia in un Paese radicalmente trasformato, avvenuto nel 1975. Il terzo – a tratti in maniera poco lineare – ripercorre la storia dolorosa della famiglia della protagonista femminile – Wen, raffigurata in copertina – e, per suo tramite, quella della Cina novecentesca. “Mettendola per iscritto, mi prendevo una specie di rivincita. Quante volte abbiamo dovuto ascoltare persone che rientravano dalla Cina entusiaste perché erano state lusingate e manipolate. La non conoscenza della lingua le aveva immunizzate da ogni contatto con la realtà” (pag. 106). Sul rapporto fra storia pubblica e vicenda privata, l’autore fa un’osservazione illuminante: “Il mio è anche il tentativo di suggerire che cosa sia la storia vissuta. Gli storici non possono farlo perché arrivano dopo e conoscono già il seguito. Scelgono dei fatti e li mettono in prospettiva secondo una certa idea. È il loro mestiere. Non possono restituire le angosce e le speranze di coloro che sono travolti dalla storia nel suo farsi. È questa esperienza che mi ha segnato e di cui ho provato a rendere l’idea” (ancora pag. 106).
La traduzione italiana di Un incontro a Pechino andrebbe completata con quella di un secondo e inscindibilmente complementare libro di Billeter, Une autre Aurélia – palese il riferimento all’Aurelia di Gérard de Nerval – pubblicato, come il primo, nel 2017. L’autore lo ha scritto dopo la morte della moglie, avvenuta nel 2012: è il diario intimo e toccante di un uomo che affronta la perdita più grave e più brutale dopo 48 anni di vita condivisa. “15 décembre. Il suffit que j’entende quelques mesures d’une musique que nous aimions pour que notre bonheur commun s’empare de moi et me bouleverse (…). 18 décembre. M’en sortirai-je par le récit ? Sera-ce le moyen de recréer un tout, après la perte ? 28 janvier. A la vue de la moindre tendresse que se témoigne un couple, la mienne pour Wen me submerge”.
Un originale ed affettuoso ricordo di Remo Beretta, scrittore ed insegnante, fra gli autori più significativi del Novecento letterario svizzero di lingua italiana
Qualche annotazione, da storico e da spettatore, su significative emissioni recentemente proposte dalla RSI