Una magnifica sbornia
Di Mattia Feltri, La Stampa Qualche anno fa un amico mi suggerì di scrivere una biografia di Silvio Berlusconi. In cui sia dentro tutto, mi disse, una biografia in mille pagine,...
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Di Mattia Feltri, La Stampa Qualche anno fa un amico mi suggerì di scrivere una biografia di Silvio Berlusconi. In cui sia dentro tutto, mi disse, una biografia in mille pagine,...
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Qualche anno fa un amico mi suggerì di scrivere una biografia di Silvio Berlusconi. In cui sia dentro tutto, mi disse, una biografia in mille pagine, di quelle che diventa indispensabile consultare e citare ogni santa volta in cui ci si occupa di Berlusconi, come la biografia di Giulio Cesare scritta da Jérome Carcopino. L’impresa presentava due problemi, uno immediato: purtroppo non ho la levatura di un Carcopino. L’altro si presentò poco dopo.
Per un paio di giorni mi dedicai alla stesura degli argomenti da trattare. Molto semplice: Berlusconi politico, Berlusconi imprenditore, Berlusconi sportivo. Aggiunsi subito Berlusconi e la magistratura. Questo capitolo – Berlusconi e la magistratura – era già lungo e complesso: le inchieste a suo carico, quelle di corruzione, di evasione fiscale, di contiguità alla mafia, addirittura le stragi del ’93, e poi le leggi ad personam, il pluridecennale conflitto con le procure di Milano e Palermo, il partito come fortilizio. Berlusconi politico si rivelò subito un inferno: la politica prima di scendere in politica, il rapporto con Bettino Craxi, la mitologia del ragazzino che appende manifesti elettorali per la Dc di Alcide De Gasperi, il preteso liberalismo, l’appoggio a Gianfranco Fini alle elezioni per il Campidoglio, e poi la fondazione di Forza Italia, il governo che cade subito, la traversata nel deserto, la riconquista del potere nel 2001 eccetera. I rapporti con la Lega e il Movimento sociale. I rapporti col sindacato. I rapporti con la sinistra. I rapporti con gli intellettuali che brulicavano nella Forza Italia degli inizi e progressivamente scomparsi.
Dentro l’inferno, il girone infernale della politica estera: George W. Bush, Vladimir Putin, Angela Merkel, Recep Tayyip Erdoğan, Nicholas Sarkozy, l’11 settembre, Pratica di mare, l’Unione europea.
Per quei due giorni non ho fatto altro che aggiungere: Berlusconi e la tv, già di suo un libro di quattrocento pagine. Berlusconi e il calcio, altro libro di trecento pagine. Berlusconi e le sue donne, pensate solo a metterle in fila: Carla Dell’Oglio, la prima moglie, poi Veronica Lario, Francesca Pascale, Marta Fascina, le decine di relazioni vere o attribuite, le cene eleganti, le parlamentari. Berlusconi e i suoi amici: Fedele Confalonieri, Gianni Letta, Marcello Dell’Utri, Adriano Galliani, Ennio Doris, don Luigi Verzè. Berlusconi e i suoi figli e i suoi genitori. Berlusconi e i tg e i giornali, da Indro Montanelli a Enrico Mentana. Berlusconi e le sue case: capitolo irrinunciabile. Berlusconi e la musica, dalle crociere a Mariano Apicella. Berlusconi e la cultura, concetto ampio: le centinaia di libri scritti su di lui, i film di Nanni Moretti e Paolo Sorrentino, la Mondadori e la Einaudi, la Medusa Film. Berlusconi e i suoi avversari, lasciamo perdere. Questo prologo di articolo sta assumendo dimensioni abnormi e non è niente rispetto alla traccia, che continuavo ad arricchire di sezioni (Berlusconi e la religione, Berlusconi e le barzellette, Berlusconi e il suo corpo, Berlusconi e le case, Berlusconi e le vacanze) e di nomi: Arrigo Sacchi, Vincent Bolloré, Barbara D’Urso, Vittorio Mangano, Mike Bongiorno, Giorgio Gori, David Mills, Franco Tatò, Mirek Topolánek, Massimo Tartaglia, Carlo De Benedetti, Gianluigi Lentini, Giorgio Bocca, Noemi Letizia, Roberto Benigni, Enzo Biagi, Bruno Ermolli, Tony Blair, Romano Prodi… Mi sono arreso. Se svolto al meglio, credo sia un lavoro di tre anni esclusivamente dedicati.
Non è soltanto la quantità abnorme di temi da sviscerare, ma come suddividerli: è possibile separare il costruttore dal politico, l’uomo di tv dall’uomo di calcio, l’uomo di mondo dall’imputato, il privato e il pubblico? E mano a mano che si accumulavano dubbi, si aggiunse un ostacolo finale: la polarizzazione. Non tanto la polarizzazione sollevata nel paese, ma la polarizzazione in me che, immerso nei miei progetti, alternavo momenti di irresistibile repulsa a momenti di irresistibile fascinazione. Come avrei raggiunto il distacco necessario ad affrontare una simile enormità?
Quando ancora i propositi non erano stati abbandonati, avevo pensato di suddividere il libro in due parti: il vincente, il perdente. Un’altra polarizzazione: Berlusconi è stato così smisurato da polarizzare anche sé stesso. Di certo il mondo prima di Berlusconi era una cosa e poi è stato un’altra. Le sue tv sono state in Italia quello che Michael Jackson e Steven Spielberg sono stati in America: l’avvio della festa. Noi eravamo abituati al monocolo della Rai, all’antennone che saliva a metà pomeriggio sulle note del Guglielmo Tell di Gioachino Rossini, un’ora di tv dei ragazzi, Happy Days alle 19.20, per il resto qualche film, qualche varietà, l’Almanacco del giorno dopo, molti tg, tribune elettorali, sceneggiati, tutta roba molto ben fatta ma contegnosa, spesso ai confini del didattico. Il massimo dell’estroso, per dire, erano l’Altra domenica di Renzo Arbore e Sandokan. Berlusconi ribalta tutto. Riempie la giornata (e presto la nottata) di quiz, telefilm, programmi comici, colori, pubblicità che diventa linguaggio universale. Cito, per chi c’era: Drive In, Dallas, Il pranzo è servito con Corrado, Raimondo Vianello e Sandra Mondaini, Uccelli di Rovo (arriva a punte di tredici milioni di spettatori), il Maurizio Costanzo Show, Dynasty, Lady Oscar, Flash con Mike Bongiorno, Risatissima con Paolo Villaggio, Massimo Boldi, Renato Pozzetto, Gigi e Andrea (media spettatori: quindici milioni), DeeJay Television con Claudio Cecchetto, Gerry Scotti, Linus, Amadeus, Jovanotti, Fiorello. Una colossale, magnifica sbornia.
Ma quando dico dell’impossibilità di separare un Berlusconi dall’altro, penso precisamente a Canale 5 che nel 1981 trasmette in differita il Mundialito per club, un torneo amichevole ideato naturalmente da Berlusconi. Il Milan (non ancora suo) schiera in prestito Johann Cruijff, poi ci sono l’Inter, i brasiliani del Santos, gli uruguaiani del Peñarol, gli olandesi del Feyenoord, tutti club che sono stati campioni del mondo. Quello è il preciso istante in cui il calcio non è più semplicemente uno sport, è uno spettacolo. Fin lì ci era concesso, dalla Rai, di vedere giusto le partite della nazionale e, alla domenica, un tempo registrato di una partita di serie A, non sempre la più appetibile. Fine. Stop. Di colpo arrivano le amichevoli, i trofei estivi, il calcio comincia a trasformarsi in un evento televisivo da che era un evento da stadio, la raccolta pubblicitaria è sbalorditiva. L’acquisto del Milan diventa quasi conseguente, ma per il vertiginoso cervello di Berlusconi, la squadra non è finalizzata alla tv, come la tv non è finalizzata alla squadra: se vince una vince anche l’altra, e più una vince più vince l’altra.
Appena salito alla presidenza del Milan, Berlusconi dice: dobbiamo diventare i più belli e i più forti del mondo. Sembra un discorso motivazionale da bignami del perfetto manager. Invece è un disegno e una predizione. Con Arrigo Sacchi, il Milan vince lo scudetto, la Coppa campioni (ora Champions League), la Coppa Intercontinentale, vince giocando all’attacco in un paese vocato a catenaccio e contropiede, insegna che si può andare al Bernabeu, lo stadio del Real Madrid, e giocare con sfrontatezza. Come aveva spiegato alla Rai il modo di divertire e far soldi, così spiega al calcio italiano il modo di divertire e portare a casa coppe. E denaro, naturalmente. Esplodono pubblicità e marketing, le tv via cavo per il campionato in diretta, e per quindici anni, guidate dal Milan, le squadre italiane dominano l’Europa.
La terza rivoluzione, la meno riuscita, è la politica. Il suo partito si chiama come un incitamento di curva, Forza Italia, e spazza via tutta la polvere alla Arnaldo Forlani con una comunicazione fatta di slogan, videoclip, ottimismo da spot, e vince le elezioni del 1994. Sembra un uomo inarrestabile. Tutto quello che tocca prende a fulgere a sua miglior gloria. Il capolavoro gli è riuscito con Mediaset e col Milan, ma non gli riuscirà con il Paese. Un po’ perché il Paese è fatto così, un po’ perché è fatto così lui. La rivoluzione liberale è il titolo di un postalmarket, la sua politica è invece un incrocio di monarchia illuminata e democristianesimo di seconda fila. Lo scopo finale non è la modernizzazione d’Italia ma la sopravvivenza del Sire. Però vince anche perché è l’unico a comprendere gli effetti del referendum Segni che introduce l’uninominale. Diventa lui l’artefice e il totem del bipolarismo. Non soltanto la destra ma pure la sinistra vive in simbiosi con Berlusconi: la destra esiste in quanto berlusconiana, la sinistra in quanto antiberlusconiana. La storia della Seconda repubblica (al netto della magistratura) è tutta qui.
Oggi la politica è per intero figlia di Berlusconi. Si vive di sondaggi, per l’evoluzione digitale si vive di like e di follower, si vive di videoclip magari sotto forma di diretta Facebook o monologo per Instagram e TikTok, si vive di battutario, di motteggio, di réclame, la scandalosa Forza Italia ha generato Fratelli d’Italia e Italia Viva e cinque stelle e rinnovamenti e cose così, che vogliono dire tutto e niente. Ma nessuno sa andare oltre Berlusconi: si pigliano gli strumenti nuovi per replicare un insegnamento vecchio. Vale per la Rai, che ha rincorso per lustri Fininvest e poi Mediaset e oggi si è pienamente canalecinquizzata, pienamente commercializzata, e non ha un’idea per il dopo. Vale per il calcio che dopo le magnificenze degli anni Ottanta e Novanta è rimasto lì a rimirarsi, non ha compiuto un passo in più, osserva senza uno squillo le crapule inglesi, spagnole, francesi e tedesche.
Anche in questo siamo rimasti tutti berlusconiani: nemmeno lui da vent’anni ne indovinava più una. Ha mancato in pieno la rivoluzione digitale. Le sue tre reti vivono di vecchie glorie (i Bellissimi di Retequattro, le Iene, Striscia la notizia, Maria De Filippi) per un pubblico incanutito, è arrivato per ultimo e ha fallito con la pay tv, le piattaforme di streaming come Netflix e Prime sono il pane quotidiano dei ragazzi di oggi quanto Italia Uno era il pane quotidiano dei ragazzi quando i ragazzi eravamo noi. Usava i social come per il messaggio in vhs con la calza di nylon sull’obiettivo. Con il Milan ha vissuto un lungo e lento declino (lungo e lento è stato il declino suo e lungo e lento è il declino del suo impero televisivo), fatto di acquisti sbagliati, campionati da comprimario, soprattutto di disponibilità economiche non più allineate alle sue ambizioni, e il finale da patron del Monza è stata una berlusconata minore, squadra portata per la prima volta in serie A, l’unico orizzonte in cui il sole calante poteva ancora fugacemente baciarlo in fronte. Un Berlusconi da sei e mezzo, diciamo, ancora ricco, ancora protagonista, ancora con un ruolo politico, ma niente più di uno straordinario gestore del suo crepuscolo. E infatti non gli restava che celebrare le date, le ricorrenze, il bel tempo che fu, i trionfi ormai dell’altro secolo. Disposto a stare a ruota di questi ragazzacci fintamente deferenti, le Meloni e i Salvini che lo hanno strapazzato con le sue stesse armi giusto un po’ adattate allo smartphone, e infatti il suo scandaloso putinismo non era antiatlantismo ma nostalgia, o più probabilmente autoreclusione nel passato in cui Putin e Bush si scambiavano un segno di pace, e lui era il sommo sacerdote.
Berlusconi è stato un uomo che ha cambiato il mondo e, quando non ha più saputo cambiarlo, si è rifiutato di cambiare col mondo. Ha preferito restare sul trono circondato dalla mitologia di sé stesso, da una finzione allucinata in cui tutti recitavano perché lui ancora si sentisse inarrivabile e immortale. Niente di più respingente, niente di più affascinante di questa lunga vita tutta fuori dall’ordinario.
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