Una nonna ucraina
Un’esperienza di accoglienza, in questi mesi di guerra, nella testimonianza della giornalista e scrittrice Claudia Quadri
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Un’esperienza di accoglienza, in questi mesi di guerra, nella testimonianza della giornalista e scrittrice Claudia Quadri
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Un’esperienza di accoglienza, in questi mesi di guerra, nella testimonianza della giornalista e scrittrice Claudia Quadri
Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole
La distruzione vista in tivù è nera, polvere, macerie, ecco i frammenti di stoviglie, la plastica annerita di un giocattolo, una scarpa, ecco un telecomando forse ancora funzionante, la carcassa di un’automobile, l’imbottitura di un divano su un tappeto di schegge, una coperta da cui sporge una mano, un piede nudo. Frammenti di una vita fa, un secondo dopo i bombardamenti.
La distruzione vista in tivù dal mio divano sembra uguale a sé stessa dappertutto e sembra antica, come fosse lì da sempre; invece è recente, le bombe ci mettono così poco a fare il loro lavoro, a smembrare dove prima c’era un ordine. E le facce della gente che vaga, che scappa, non sono facce qualsiasi, comuni? Normali.
Quando sono stati firmati i trattati di non proliferazione delle armi atomiche, quando nel 1989 è caduto il Muro di Berlino, ero sicura che la Storia sarebbe andata in una certa direzione. Ci penso con la mia faccia normale, sul mio divano così simile a quello che vedo sullo schermo della televisione, sventrato. Così, quando gli ucraini iniziano a scappare dal loro paese, anche la nostra famiglia – spinta da mia figlia – mette da parte le domande, le esitazioni e come tante altre famiglie decide di ospitare qualcuno.
La nonna chiamiamola Olena; è piccola, il foulard annodato sotto il mento, gli stivali con il pelo, il cappotto imbottito che le arriva fino ai piedi. Sembra uscita da una fiaba popolare a venti gradi sottozero, da una casetta a un piano con un giardino, la legnaia sul retro, il pollaio in cortile. Ma in testa abbiamo molti stereotipi e ci metteremo un po’ a capire che dopo l’attacco russo, le persone arrivate per prime in Svizzera dall’Ucraina, sono – spesso – piuttosto benestanti. In ogni caso le bombe non fanno distinzioni, cadono sulla testa di tutti.
La invitiamo a sedersi, ha l’aria stanca, un sorriso timido, dice qualcosa che non capiamo – forse dopo un viaggio così lungo in torpedone, preferisce stare in piedi. Esita, resta a lungo nell’ingresso insieme alla sua valigia, si guarda intorno, per fortuna non ha l’aria traumatizzata.
Non sembra avere alle spalle separazioni laceranti, nonna Olena, lacrime e abbracci interrotti su un parcheggio, con il motore del torpedone già acceso, in partenza. Ma io cosa ne so? Meglio così, d’altronde, perché l’idea di trovarmi di fronte qualcuno sotto shock, mi spaventa. L’alloggio è solo il punto di partenza, una persona ha bisogno di molto di più, questo mi è chiaro fin dall’inizio. E quando decidi di aiutare non scegli, non sai chi arriverà e con quale storia.
Mi chiedo che impressione facciamo noi a lei – noi, che teniamo la mascherina, mentre lei la mascherina se la metterà solo quando veramente costretta a farlo. Di una cosa ci accorgiamo subito: la comunicazione è difficile, Google translator diventa subito indispensabile e più di Google le persone che gentilmente si metteranno a disposizione per tradurre.
Per intanto con la nonna possiamo solo esprimerci a gesti, facciamo sorrisi forse esagerati, con ampi gesti mostriamo l’appartamento che abbiamo arredato a tempo di record, mentre la televisione e la radio raccontavano dei pullman in arrivo in Ticino. Sui social, gli appelli: chi può accogliere una madre con due bambini piccoli? Quante persone potete ospitare? La maggior parte di loro viene accolta in case private. Ogni giorno ecco nuovi torpedoni.
Pochi mesi e ci abitueremo alla guerra, la paura di un conflitto nucleare finirà nel dimenticatoio. Ma nel marzo 2022, i civili ucraini che dormono in cantina, nella metropolitana, l’avanzata dei convogli russi, la fuga dalle città minacciate, le prime bombe, le prime vittime… È tutto nuovo, vediamo la solidarietà che si mette in moto e non vogliamo stare a guardare.
Invitiamo la nonna a sistemarsi, lei ci parla in questa lingua incomprensibile, di cui impareremo qualche parola. “Spasiba”, la prima che memorizziamo, vuol dire grazie.
Nonna Olena ha bisogno di scarpe, il caldo inizia a farsi sentire e i suoi stivali con il pelo non sono adatti al nostro clima primaverile. Prima di passare da un negozio, decido di accompagnarla nella sede di un’associazione che aiuta i migranti. Lì forse troveremo quello che le serve. Ci andiamo un mercoledì mattina e finiamo in coda; c’è molta richiesta e a causa del Covid le entrate vengono scaglionate. Molto presto diverse associazioni come questa si troveranno in difficoltà, le scorte agli sgoccioli, e rinnoveranno gli appelli alla solidarietà.
Quando arriva il nostro turno, all’interno troviamo molto calore umano; dal punto di vista dell’assortimento, la situazione è quella di un nostro tipico mercato dell’usato. La nonna ride di certe ciabatte di cuoio con la punta all’insù che sembrano uscite dalla favola di Aladino. Cerchiamo, niente scarpe per lei, purtroppo. Olena passa al reparto abbigliamento, prova e scarta vestiti; alla fine ripartiamo con un certo numero di capi, presi forse solo per dare un senso alla nostra trasferta. Non glieli vedrò mai indossati. Forse ha pensato: “nella vita non si sa mai” – in fondo solo qualche giorno fa era a casa sua, aveva le sue cose, i suoi spazi, la sua routine.
Alla fine, le scarpe per la nonna arrivano grazie al passa parola, i nostri armadi sono pieni di indumenti che non portiamo, anche nuovi. Può scegliere tra diverse paia, mi ringrazia, come sempre. Rendermi utile mi ha lasciato una sensazione positiva, certo, ma ho continuato a pensare a quanto sia personale un paio di scarpe, a cosa vuol dire dover chiedere aiuto, dover indossare le scarpe di qualcun altro. Non smetto di chiedermi cosa avrei fatto al posto di Olena, dove sarei andata. Cosa avrei messo in valigia, che scarpe avrei indossato.
Prima del suo arrivo ho fatto una spesa. “Cibo in Ucraina” e “Cosa mangiano gli ucraini”, ho cercato su internet vergognandomi un po’. Amicizie, conoscenti, persone di famiglia aiuteranno a coprire i costi della spesa nel primo periodo, prima che arrivino i soldi del Cantone. Non devo neanche chiedere: la solidarietà scatta automaticamente.
La nonna ucraina deve familiarizzarsi con i nostri prodotti. Dopo un paio di giorni, andiamo insieme al supermercato e io mi accorgo di aver dimenticato il telefono con il traduttore. Ci intendiamo a gesti. La nonna sceglie peperoni, cipolle, patate, delle barbabietole. Soppesa le mele, guarda i cavoli. Indica le mozzarelle che le ho fatto trovare nel frigo all’arrivo, devono esserle piaciute. Il cesto della spesa si riempie. Calma! Mi metto a mimare le borse della spesa pesanti e noi due che dobbiamo portarle a piedi fino a casa – gli addetti alle videocamere di sorveglianza forse assistono divertiti alla scena. La nonna fa sì con la testa, ha capito. Poi va dritto al banco della carne: non so quanto costi la carne in Ucraina, ma in Svizzera non è economica. Abbiamo un budget da rispettare. E io sono vegetariana. Faccio delle facce, simulo spavento, spalanco gli occhi e il borsellino.
“Cocoricò?” chiede la nonna.
Vada per il pollo.
Ci stiamo avviando alla cassa ma manca ancora qualcosa. “Maslo”, dice la nonna. Maslo, insiste, deve trattarsi di un prodotto comune. Maslo, maslo, ripete a voce sempre più alta come se alzando il volume io a un certo punto la capirò per forza. Invece allargo le braccia, scuoto la testa. Gli addetti alla videosorveglianza forse stanno ridendo.
Passa una commessa, chiedo aiuto. Provi con il burro, mi dice. Torniamo ai frigoriferi, la nonna esamina un panetto di burro, dubbiosa, alla fine lo mette nel cesto della spesa. Qualcuno mi dirà poi che con maslo si intende grasso per cucinare e che lei voleva probabilmente dell’olio di semi.
Ripenso a quell’episodio, al fatto che poi, la nonna Olena e io, anche se continuavamo a non capirci, siamo riuscite a ridere del maslo misterioso.
Si riesce a comunicare anche in altri modi e ridere insieme fa sentire vicini. Ma la vita non si ferma al burro, alla spesa, e come detto, per fortuna persone amiche hanno aiutato con la traduzione. Il numero di formulari da riempire, di informazioni da raccogliere e da scambiare, il numero di visite ai diversi uffici federali e cantonali per arrivare al famoso “permesso S” è stato considerevole e impegnativo. Come poteva cavarsela da sola, la nonna, senza conoscere la lingua e il territorio? E a parecchie settimane dal suo arrivo, una volta ottenuto il permesso di soggiorno e ricevuti i primi contributi, abbiamo scoperto che la richiesta di aiuti andava rinnovata ogni mese.
Ho perso il conto delle telefonate fatte alla Helpline ucraina, la linea telefonica d’emergenza. Per alcune domande non c’erano risposte immediate, il Cantone si stava organizzando. Anche aprire un conto per riuscire a ricevere gli aiuti statali ha richiesto diversi tentativi. Decifrare le scritte in cirillico sulle scatole dei medicamenti non è stato facile né immediato; in farmacia malgrado l’impegno non hanno potuto aiutarci. La farmacista ha anche chiamato il Pronto Soccorso, ma le hanno detto che nessuno era in grado di comunicare con Olena. Così, per non disturbare le “solite” amiche, ho rispolverato un vecchio manuale di russo e scoperto che la nonna aveva il diabete, problemi di pressione e di vene. Ma con i suoi diversi problemi di salute, la nonna ucraina durante il suo “soggiorno” in Ticino, di un medico non avrà mai bisogno. Per fortuna, perché trovarne uno in grado di parlare direttamente con lei, non sarebbe stato facile, ci siamo informati.
A proposito di comunicazione, ho imparato a dire “babuska” per comunicarle che anch’io ero appena diventata nonna, che eravamo colleghe. E “rabota” – lavoro – per farle capire quando per me era ora di congedarmi. La mia idea iniziale, di imparare il russo o l’ucraino mentre lei imparava l’italiano è subito sfumata. Sono lingue difficili, e io non ero nell’urgenza di impararle – mentre lei e le migliaia di altre persone arrivate in Ticino forse per caso, sono alle prese con l’italiano, che deve sembrare loro altrettanto ostico.
Nel frattempo, si sente parlare di ricostruzione, partono le prime navi cariche di grano ucraino per “scongiurare una crisi alimentare mondiale”. Ma il macabro pallottoliere della guerra non si è fermato. La gente resiste come può. A proposito di distruzione e quotidianità, penso agli studenti che si sono filmati davanti alle rovine della loro scuola con il diploma conseguito online, ai musicisti che hanno fatto rivivere una sala da concerto bombardata suonando davanti alla sua sagoma annerita. Immagini per ricordare a sé stessi e agli altri che in quei luoghi c’era istruzione, cultura, c’erano persone che facevano progetti. E che si va avanti.
Ripenso all’episodio del maslo, adesso che la nonna Olena è tornata in Ucraina e sono senza sue notizie. Dopo tre mesi e dopo una serie di vicende complicate, è ripartita. La sua famiglia è sparpagliata, ha chiesto e trovato asilo anche in altri paesi, tra cui l’Inghilterra – ignoro in quali circostanze. Molte persone uscite dall’Ucraina si sono spostate da un paese all’altro e tra giugno e luglio è circolata l’informazione che la Confederazione ha perso (momentaneamente?) le tracce di un numero importante di profughi ucraini entrati in Svizzera.
Dopo la partenza della nonna Olena, all’inizio, grazie a un’amica, ho tenuto i contatti. Ho saputo degli allarmi, delle sirene che suonano a qualsiasi ora, del sonno interrotto, delle corse nei rifugi. Poi più niente.
Riproverò.
Una lettura del volume “Il Capitale. Il lungo presente e i miei studenti” di Paolo Favilli, presentato domani alla Filanda di Mendrisio