Quando tante piccole storie raccontano il senso e l’importanza dei 75 anni del Festival di Locarno
Intervista a Lorenzo Buccella, autore del libro “Locarno on/ Locarno off” appena uscito presso Casagrande in collaborazione con Locarno Film Festival
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Intervista a Lorenzo Buccella, autore del libro “Locarno on/ Locarno off” appena uscito presso Casagrande in collaborazione con Locarno Film Festival
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Intervista a Lorenzo Buccella, autore del libro “Locarno on/ Locarno off” appena uscito presso Casagrande in collaborazione con Locarno Film Festival
Proponiamo qui una breve intervista a Lorenzo Buccella ed uno dei suoi 75 capitoli delle “storie” cinematografiche locarnesi. (red)
Sì, la volontà era proprio quella, anche perché spesso è attraverso questi microracconti o questi episodi che solitamente stanno dietro le quinte di una grande manifestazione a restituirti l’atmosfera del Festival, un po’ di quell’ossigeno che se ne sta lì, tra un film e l’altro e che permea i suoi luoghi di incontro. A partire da quella scatola magica che è stato il Grand Hotel del primo dopoguerra, quello della prima edizione del 1946, con la proiezione nel suo giardino inclinato che anno dopo anno inizia a coinvolgere sempre più la città, fino alla comparsa – per fare un esempio – di quelli che venivano soprannominati i Tarzan del Grand Hotel e cioè gente comune che cercava di arrampicarsi sugli alberi del giardino pur di potere vedere la grande calamita del cinema sul grande schermo. Proprio là dove nel 1960 – altro esempio – arriva una star come Marlene Dietrich che per contratto è costretta a rimanere muta per tutta la serata di gala. Qualcosa di ben diverso dalla scena quasi muta che farà un giovanissimo Spike Lee vent’anni dopo. Stavolta ci spostiamo di qualche centinaio di metri più in là, siamo in Piazza Grande, è il 1983 e l’allora ventiseienne Spike Lee è talmente spaventato dal fatto di dover salire sul palco che è stato indispensabile dargli una spinta da dietro, sulla schiena, perché salisse quei gradini per ritirare il premio appena conquistato. Un andare e un partire da Locarno che a volte ha avuto persino dell’avventuroso, per chi come il tedesco Heinz Rühmann aveva scelto di arrivare da solo in aereo atterrando a Magadino. Senza dimenticare i tantissimi racconti che a Locarno un po’ tutti hanno vissuto, quelli legati alla pioggia che si abbatte su Piazza Grande. Da quelli drammatici cha causarono l’alluvione nel 1978 che per una sera trasformarono Locarno in Venezia a quelli più divertenti che scatenarono l’entusiasmo di un Harrison Ford nel vedere gli spettatori resistere sotto un acquazzone pur di non perdersi niente del suo film. Storie che più che legate alla meteorologia di Locarno oggi fanno parte della sua mitologia.
Come tutte le ricorrenze, una data simbolica come quella del 75° del Festival può diventare una sosta privilegiata per tornare a rileggere e aggiornare l’intera storia di Locarno sulle punte dell’oggi. Non tanto in termini celebrativi, ma con uno sguardo desideroso di andare a rintracciare quelle caratteristiche e quelle costanti che si sono venute a ripresentare a Locarno nelle varie stagioni storiche, anche perché in fondo è in quelle caratteristiche e in quelle costanti che sembra depositarsi il vero spirito della manifestazione. Penso per esempio a quella vocazione alla scoperta nei confronti di nuovi autori, che il Festival – un po’ per scelta un po’ per costrizione – è andato a costruire attraverso una serie di aperture tutt’altro che scontate. Come quella che negli anni Cinquanta ha trovato coraggio e libero sfogo, andando a pescare film anche al di là della cortina, rompendo quelli che erano i confini della Guerra Fredda e ospitando le nuove cinematografie dell’est europeo. Una volontà di sconfinamento che, in contesti completamente diversi, trent’anni dopo, sotto la direzione prima di David Streiff e poi di Marco Müller, si è spinta ancor più in là, creando un feeling privilegiato con il cinema del medio ed estremo Oriente, questa volta a livello mondiale.
Vale anche a livello di formato e di linguaggi. Se oggi la “digitalizzazione” sembra diventata l’inevitabile password d’accesso per qualsiasi discorso legato allo sviluppo del presente e del futuro, conviene ricordare come Locarno sia stato il primo grande Festival ad aprire una sezione interamente dedicata alle nuove tecnologie video, ma anche il primo Festival che poi qualche anno dopo quella stessa sezione l’ha abolita, perché ormai il digitale era ovunque e, anzi, iniziava a costituirsi come il nuovo alfabeto di riferimento.
Sì, e forse sono stati proprio i momenti locarnesi di crisi, quelli segnati da situazioni di passaggio che sono stati più interessanti da raccontare, perché poi come spesso accade è nella qualità delle risposte che si vede lo spirito della reazione e, a volte, l’inizio di quella che diventa una vera ripartenza. Del resto, come vuole il più trito dei luoghi comuni, una crisi può sempre trasformarsi in un’opportunità e quella che all’inizio viene considerata una sfortuna può convertirsi nel suo esatto opposto. C’è un esempio che secondo me è ancor più significativo di quello che per esempio è accaduto per la pandemia. Per tornare ancora agli anni Cinquanta, per ben due volte – nel 1951 e nel 1956 – il Festival deve rinunciare alla propria edizione, soprattutto per le ostilità che la FIAPF, la potentissima federazione internazionale delle associazioni di produzione cinematografica, riservava nei confronti di Locarno. Tanto che la FIAPF, a un certo punto, costringe il Festival a occuparsi solo di opere prime e seconde. Ebbene, quella che allora venne vissuta come una retrocessione, per Locarno diventò un grande trampolino, visto che proprio in quel momento nel mondo si stava affacciando una nuova generazione di giovani cineasti destinati a cambiare il panorama contemporaneo. E se a Locarno hanno trovato il proprio debutto autori come Claude Chabrol, Milos Forman, Marco Bellocchio, Lina Wertmüller e Raul Ruiz lo si deve anche a questo.
La prima richiesta all’architetto Livio Vacchini arriva nell’aprile del 1971. «Bisogna far rinascere il Festival» gli dice il giovane presidente Luciano Giudici, mentre arriva nel suo studio accompagnato dall’avvocato Giuseppe Cattori. Da anni, il Festival non riesce più a recuperare la magia atmosferica che contrassegnava le proiezioni nel parco del Grand Hotel. Ci vuole un’idea nuova.
E lo sguardo dell’architetto finisce subito su quella grande piazza che si spalanca dalla finestra del suo studio. Il sogno, farla diventare una sala all’aria aperta. Chiudendola con un grande schermo in modo da delimitare lo spazio e lasciare le stelle a far da soffitto. Proprio il progetto che il 14 maggio Vacchini presenta prima davanti al comitato del Festival e, ottenuta una prima approvazione, il 3 giugno, all’assemblea.
Il via libera arriva a fronte di alcune perplessità numeriche: la prima riguarda i costi per la realizzazione (240000 franchi), la seconda le mille sedie previste. Cifre da alcuni ritenute eccessive, ma che tuttavia non frenano il progetto. Si va avanti, anche perché il tempo stringe e la difficoltà della sfida impone soluzioni veloci e a tratti anche spregiudicate. Come le fondamenta dello schermo, che devono scendere per ben 9 metri nella falda freatica del lago. Il 5 luglio in piazza compare una grande macchina nera che comincia i lavori di palificazione. Dieci giorni dopo si inizia a intravedere la struttura tridimensionale dello schermo. Prima sdraiata al suolo, poi sollevata da una potente autogru e tutta intrecciata in modo da evitare che il telo, sbattendo al vento, sfuochi l’immagine durante la proiezione.
A quel punto c’è ancora un problema non da poco da risolvere: all’inizio degli anni settanta non esiste ancora un collegamento elettrico separato, per cui bisogna andare casa per casa, lungo gli edifici che si affacciano sulla piazza, per chiedere di accettare un blackout forzato dalle nove alle undici di sera. Una faticaccia, ma ormai il processo sembra inarrestabile. Il 4 agosto è il giorno delle prove.
Partono solo le prime immagini di Prendi i soldi e scappa di un regista allora non ancora così conosciuto che si chiama Woody Allen, e subito la pelle d’oca è tale che lo stesso Vacchini si deve allontanare.
Il pienone, la prima sera. Ma già dal sabato successivo, le mille sedie non bastano più. Bisogna aggiungerne altre. All’inizio cinquecento e poi via via, di anno in anno, progressivamente aumentano finché si arriva all’attuale capienza da concerto rock: ottomila persone. Tutte lì ancora oggi, per una visione nata in un giorno di aprile di mezzo secolo fa.
Da L.Buccella, “Locarno on/Locarno off – Storia e storie del Film Festival”, Casagrande e LFF, pp.122-3
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