Iran: silenzio, si uccide
Il pericolo è l'indifferenza di fronte al fiume carsico della lotta democratica in Iran e nelle altre dittature
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Il pericolo è l'indifferenza di fronte al fiume carsico della lotta democratica in Iran e nelle altre dittature
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Il regime dei Mollā si è fatto più discreto. Niente pubblico, nessuna immagine: per la deterrenza basta una lapidaria comunicazione. La condanna per «inimicizia nei confronti di Dio e corruzione in terra» rimane inalterata: quella capitale. I Guardiani della rivoluzione aprono il fuoco sui manifestanti, mirano agli occhi e ai genitali. Ma la protesta non si ferma. Altri 28 ragazzi e ragazze, potrebbero essere impiccati nei prossimi giorni. Dalla morte il 16 settembre scorso in carcere di Mahsa Amini, rea di non aver indossato correttamente l’hijab, si contano mezzo migliaio di morti ammazzati e 18mila arresti. I dimostranti come «ferite purulente», parole della guida suprema Ali Khamenei.
Di fronte alla religione dell’oppressione e della morte (l’ayatollah Khomeini aveva chiesto di adottare il color nero per i chador) i giovani iraniani contrappongono la fame per la vita, l’insopprimibile bisogno di libertà. 100 giorni di sangue, ma anche di coraggio. La storia di quella che era l’antica Persia, come quella del vicino Afghanistan, sembra scorrere al contrario. Un secolo fa i due paesi, sull’onda della rivoluzione laica post-ottomana di Mustafa Kemal Atatürk, avevano avviato quasi in simultanea un processo di modernizzazione. Amanullah Khan aveva vietato nel 1919 la poligamia, l’obbligo del velo e aperto le scuole alle ragazze. In Iran Reza Khan, colonnello della brigata cosacco persiana, assurto al potere con un golpe, aveva vietato l’hijab e le due regine sfilarono nel 1929 a Teheran capelli al vento.
Sia il re afghano sia lo scià persiano dovettero però fare i conti con la fortissima resistenza del mondo clericale. Il velo, obbligatorio dalla rivoluzione khomeinista del 1979 (in Afghanistan è ormai imposto per legge quello facciale, niqab o burqa) è diventato sinonimo di regime. Da qui la sua centralità nella sedizione di massa. La repressione delle donne iraniane non è estrema come quella che si abbatte sulle afghane (da più di un anno in sostanziale regime di schiavitù): hanno accesso alle università, a molte professioni e la loro recente storia è segnata da grandi intellettuali e letterate (dalla Nobel Shirin Ebadi a Forough Farrokhzad, una delle voci più alte della poesia persiana) ma la legge approvata nel 1984 svetta per crudeltà: prevede 72 frustate per chi non porta il velo, mentre il divieto di prodotti cosmetici aveva inaugurato la pratica da parte dei Bassiji (guardiani della morale) di togliere il rossetto dalle labbra di quante infrangevano la legge a colpi di lamette da rasoio.
Nell’involuzione del paese porta certamente una parte di responsabilità l’Occidente: noto è il ruolo della Cia nel golpe che rovesciò Mossadeq nel 1953 o il sostegno acritico agli eccessi dello scià, mentre il presidente americano Bill Clinton non colse l’occasione di trattativa («fu in assoluto il mio più grande errore», ci confidò in un’intervista) offertagli dal presidente riformatore Khatami a fine anni ’90.
Oggi incombe un’altra insidia: la nostra indifferenza di fronte al fiume carsico della lotta democratica in Iran e nelle altre dittature. Ce lo ricorda una blogger di Teheran: «la nostra paura è il vostro silenzio».
Scritto per laRegione
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