Praga e Kiev, due tragedie lontane ma non del tutto dissimili
Nei giorni dell’anniversario dell’occupazione sovietica della Cecoslovacchia
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Nei giorni dell’anniversario dell’occupazione sovietica della Cecoslovacchia
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Nei giorni dell’anniversario dell’occupazione sovietica della Cecoslovacchia
Così non è stato, né poteva essere, la storia si è immediatamente rimessa in marcia con guerre, conflitti di civiltà, sfide mondiali (Cina-Usa in primis). Del resto, oltre mezzo secolo fa il Cremlino intervenne all’interno del Patto di Varsavia, nel perimetro che gli era stato attribuito dagli accordi di Jalta (febbraio 1945), in base a una logica spartitoria che faceva comodo anche agli Stati Uniti per legare al suo campo l’Europa, condizionarne gli orientamenti, vigilare su eventuali pulsioni autonomiste tedesche (secondo il motto ‘l’America sopra, l’Europa in mezzo, la Germania sotto’). Il brutale intervento contro il ‘socialismo dal volto umano’ di Alexander Dubcek, non smosse l’Europa (semmai, insieme ai precedenti interventi nella Germania Est e in Ungheria, non se ne perse la memoria, contribuendo al trasferimento in blocco, e non forzato, dei paesi ex satelliti nell’Alleanza Atlantica).
Praga venne dunque ‘normalizzata’ all’interno di queste ferree logiche, rassegnandosi alla falsa ma ineludibile logica imposta da Gustav Husak, “chi non è contro noi, è con noi”. La distanza appare siderale. Come può allora prestarsi la lontana tragedia cecoslovacca a parallelismi con quella attuale? Quale cucitura è possibile fra Praga 1968 e Kiev 2022? In realtà, certi binari si incrociano fra modello Breznev e modello Putin. La ‘sovranità limitata’ teorizzata allora trova il suo sviluppo nella ‘sovranità espansionista’ dell’odierna Russia. Anche quella fu operazione militare di soccorso ‘fraterno’, come recitava la copertina del ‘libro bianco’ pubblicato dal Cremlino (a cui la resistenza rispose con un clandestino ‘libro nero’ sull’occupazione che denunciava il ‘volto umano dello stalinismo’). E pure allora, come scrisse la “Pravda” il giorno stesso dell’invasione, la Cecoslovacchia doveva essere ‘difesa dalle forze controrivoluzionarie’ interne ma anche esterne, ‘una minaccia alle basi della pace europea’. Critica e allarme del resto lanciate in modo esplicito nella Conferenza del Patto a Dresda del 23 marzo , mentre uno dei comandanti russi dell’epoca nelle sue memorie ha confermato di aver ricevuto un piano di invasione già il 12 aprile 1968.
Allora, come oggi, la Nato, ammonivano a Mosca, era pronta a impadronirsi del paese, tanto che i generali russi incaricati di gestire l’operazione militare affermarono poi di “aver evitato la perdita della Cecoslovacchia e salvato il mondo dalla terza guerra mondiale”. Non mancarono invocazioni e richiami etnici, e per giustificare i tank dell’Armata Rossa vennero sottolineati ‘i legami di sangue slavo’. Nemmeno venne risparmiata l’accusa di pericolo genocidario (sotto la guida di… Dubcek?) contro gli esponenti più fedeli alla linea sovietica, visto che le forze controrivoluzionarie, sempre secondo la Pravda, avrebbero creato “un’atmosfera di autentico pogrom” contro i comunisti locali, e “un clima di odio verso l’Urss”.
Aggiungeteci infine una sorta di ‘guerra ibrida’ ante-litteram, visto che nello studio di Breznev vennero ritrovati appunti in cui il segretario generale ordinava “un ampio spettro di misure speciali nell’ambito della disinformazione”. Certo, sull’altro fronte, l’imperialismo ‘yankee’ avrà pure le sue Bibbie utilizzabili per ogni battaglia ‘anticomunista’. Chi lo può negare? Ma nemmeno si può tacere del riflesso bolscevico con cui la ’dottrina Putin’ pesca nel passato sovietico-bolscevico. Del resto parte non secondaria dello stalinismo è stato rivalutato dal nuovo zar, per la vittoria nella guerra patriottica anti-nazista ma anche se non soprattutto per esaltarne la tenuta imperiale. E il filosofo recentemente più ascoltato da Putin non è forse il ‘rosso-bruno’ Alexander Dugin? È il filosofo che ha fondato il partito nazional-bolscevico.
In “La Russia da Gorbaciov a Putin”, Lev Gudkov e Victor Zaslavsky (il primo dirige a Mosca il Centro studi sull’opinione pubblica, il secondo fu costretto a espatriare nel 1975) , si chiedono anche come nell’Urss si guardasse agli altri paesi del Patto di Varsavia. Ecco la loro risposta: “Nel periodo sovietico il migliore tenore di vita dei Paesi dell’Europa orientale era compensato, agli occhi dei russi, dal senso di superiorità che conferiva loro l’impero, tale da far considerare loro i cittadini di quei Paesi come dipendenti di Mosca, o ‘fratelli minori del campo socialista’. Ai rapporti si applicavano le norme del paternalismo di Stato, tipico delle società con la cultura politica di grande potenza. La popolazione sovietica considerava tutti gli avvenimenti che la riguardavano dal punto di vista delle opposizioni ‘amici-nemici’ e ‘centro-periferia’, identificando sé stessa con il potere imperiale, in contrapposizione a tutti gli altri. Simili idee erano diffuse non solo in vasti strati della popolazione soprattutto urbana, ma anche nell’intellighenzia sovietica, per la quale il paternalismo di Stato aveva il proprio fondamento nella presunta superiorità degli eredi di una grande cultura imperiale nei confronti delle ‘piccole’ culture”. Anche in questo giudizio emergono elementi di continuità col presente putiniano, reso possibile da una transizione che nel dopo Eltsin è stato regolato da un imponente apparato burocratico, poliziesco e militare, dando una certa continuità agli aspetti peggiori dell’esperienza sovietica.
Torniamo a Praga. Soltanto tre anni dopo la ‘rivoluzione di velluto’ del 1989, che aveva liberato e democratizzato la parte d’Europa tenuta in ostaggio per decenni dietro la ‘cortina di ferro’, la Cecoslovacchia dovette affrontare una prova per cui non mancarono i timori per i rischi di una svolta non pacifica. Ci fu la secessione della Slovacchia, realizzata da forze nazionaliste di Bratislava maggioritarie nel parlamento locale, che non tennero conto del fatto che la maggioranza della popolazione delle due parti della Federazione fossero contrarie alla dissoluzione. Non ci furono giorni tragici, non ci furono movimenti di truppe, non si sparò un colpo. Piacesse o meno, quella frattura venne accolta: democraticamente. Il presidente Vaclav Havel (drammaturgo che dall’opposizione antisovietica, per anni, aveva animato ‘Carta 77’) fece il gesto più eclatante: annunciò le sue dimissioni, perché genuinamente convinto che veniva spezzata inutilmente e in modo controproducente una unità storica e culturale, prima ancora che politica.
In anni in cui la “questione ucraina” rimaneva sottotraccia ma non era ignota la sua esplosività a causa dei moniti di Mosca, rispondendo alla domanda di un eminente uomo politico straniero, Havel non ebbe dubbi: “La risposta che ho dato al politico in questione è stata inequivocabile, e probabilmente poco diplomatica: non spetta né agli Stati Uniti né alla Federazione russa né a chiunque altro prendere la decisione di dove vada collocata l’Ucraina. A decidere quale sia il suo posto può essere solo l’Ucraina stessa”. Le rivoluzioni post-caduta del Muro avevano cancellato la ‘prigione’ di Jalta. E la logica degli stati cuscinetto attorno all’ex Urss, rianimando l’antica preoccupazione-ossessione russa, imperiale o sovietica, dell’accerchiamento. Havel non poteva certo ignorarlo. Ma era convinto che fosse impensabile obbligare i popoli dell’est europeo a ridare fiducia alla nuova Russia accettando di ripristinare le logiche dell’immediato dopoguerra, visto che, come ricorda con semplicità e una certa dose di ironia lo scrittore Milan Kundera in ‘Occidente prigioniero’ (ripubblicato subito dopo l’attacco russo del 24 febbraio scorso), “ai confini orientali di quell’Occidente che è l’Europa centrale, siamo sempre stati più sensibili al pericolo della potenza russa”.
La convinzione di Vaclav Havel era che non in una semplice riproduzione dei rapporti di forza, ma soltanto in un generale processo democratico – lungo le due dorsali dell’ex cortina di ferro – si potesse trovare una soluzione all’interno della ‘casa comune’ auspicata da Gorbaciov. Con una certezza: “Non solo geograficamente, ma anche per tutta la sua lunga storia passata… l’Ucraina è una nazione profondamente europea”.
Scritto per laRegione
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