Vogliono la testa di Julian Assange
Un verdetto di estradizione verso gli Stati Uniti contro diritti umani, libertà di stampa e verità storica
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Un verdetto di estradizione verso gli Stati Uniti contro diritti umani, libertà di stampa e verità storica
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Un verdetto di estradizione verso gli Stati Uniti contro diritti umani, libertà di stampa e verità storica
Cospirazione, documenti ottenuti illegalmente (rubati da un ex soldato americano), pubblicazioni in rete di informazioni ‘classificate’ (cioè segrete), e quindi minaccia alla sicurezza nazionale. Sono le principali imputazioni contro il cittadino australiano Assange. Che con le sue rivelazioni (migliaia di documenti ufficiali) ha inchiodato gli Stati Uniti a precise e incontrovertibili responsabilità (torture, uccisioni da ‘fuoco amico’, incapacità militare, pasticci politici, e altro ancora) soprattutto nelle due guerre perse dalla super-potenza nel pantano del Medio Oriente: in Iraq, dove l’intervento militare ha fatto implodere il paese, consegnato il potere alla componente sciita influenzata dall’Iran, e incoraggiato la nascita del Califfato islamico (Isis) da parte di ex ufficiali sunniti di Saddam Hussein; e in Afghanistan, vent’anni di occupazione terminati con un accordo che ha riportato i Talebani al potere e l’estate scorsa con le drammatiche scene della tentata fuga di migliaia di civili, ammassati attorno all’aeroporto di Kabul, persino peggio delle immagini di 46 anni prima sull’umiliante ritirata da Saigon.
Non era dunque giusto denunciare quel groviglio di criminali malefatte ed errori, documentandole con testimonianze anche di ufficiali e militi americani, fatti che molti osservatori avevano già segnalato, e che portavano alla luce i prodromi di due fallimenti, dentro cui ci sono state migliaia di vittime civili, distruzioni massicce, divisioni e violente rivincite etnico-religiose? Non fu del resto questo anche, all’inizio degli Anni Settanta, il caso dei ‘Pentagon Papers’, settemila pagine top-secret sulle tragedie vietnamita e cambogiana, vendute da Daniel Ellsberg, infine pubblicate dal New York Times e dal Washington Post? E senza che si aprissero processi nei confronti della fonte, degli autori dello scoop, e delle rispettive testate?
Dove sta, allora, la differenza? Sul piano tecnico, sta sostanzialmente nel fatto che la giustizia statunitense non riconosce ad Assange lo status di giornalista, e quindi nemmeno lo scudo rappresentato dal Primo Emendamento sulla libertà di opinione e di espressione. Un’evidente torsione della realtà, visto che oltretutto anche oggi la stragrande maggioranza dei giornalisti dei paesi democratici (in primis “Reporter senza frontiere”) sta protestando per una simile negazione della realtà e quindi della attuale detenzione e della possibile ‘deportazione’ in terra americana.
Ma è soprattutto sul piano politico che va valutato il caso Assange. Alla gogna non c’è solo un imputato, ma lo stesso diritto di cronaca e di libera informazione. Che riguarda tutti, certo non unicamente i giornalisti. E a quelli – anche nel nostro mestiere – che tentano di squalificare Assange classificandolo più come trafficone spione che come libero informatore, due semplici risposte. Primo: è da oltre tre secoli che il giornalismo vive di segrete confidenze e di documentazioni trafugate che poi devono passare nel setaccio di serie e corrette verifiche. Secondo, e soprattutto: le vittime innocenti (carne, ossa, sangue) di misfatti di ogni genere che qualsiasi tipo di potere cerca di nascondere, vorrebbero oppure no che si conoscessero le verità e le responsabilità di chi li ha condannati ad una sorte terribile?
Ecco perché quella contro Assange è una sentenza contro diritti umani e democrazia, libera informazione e verità storica.
Immagine di Caitlin Hohnstone
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