Abe, vittima del Giappone profondo
Dietro il gesto “folle” di un omicida stanno questioni profonde e latenti di un paese che deve trovare una propria nuova collocazione geo-politica
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Dietro il gesto “folle” di un omicida stanno questioni profonde e latenti di un paese che deve trovare una propria nuova collocazione geo-politica
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Dietro il gesto “folle” di un omicida stanno questioni profonde e latenti di un paese che deve trovare una propria nuova collocazione geo-politica
Non esiste nulla di più imprevedibile del domani, ma una cosa appare già da ora più che certa: 8.7.2022 è una data destinata a restare immortalata nei futuri annali di storia del Giappone con un inchiostro indelebile, che non si cancella, che è quello del regicidio. Perché il Giappone non ha perduto un politico qualsiasi, bensì quello che si suol definire un grande vecchio, un burattinaio o un gestore del potere dietro il trono.
Il trapasso violento di Shinzo Abe, brillante statista e architetto dell’incompiuto anelito di un Giappone post-americano – progetto che (ai posteri l’ardua sentenza) potrebbe essere morto col suo ideatore –, era in qualche modo prevedibile, è inquadrabile nel più ampio contesto delle grandi pulizie in corso all’interno dei blocchi e obbligherà i figli del Paese del Sol Levante ad un’analisi introspettiva volta a risalire alle origini di quello che premette e promette di essere l’evento spartiacque della loro contemporaneità.
Abe è morto, assassinato da un ex-militare rispondente al nome di Tetsuya Yamagami a breve distanza dal quarto anniversario dell’esecuzione di Shōkō Asahara, e il Giappone è sotto choc. Era dal 1932, anno dell’uccisione di Inukai Tsuyoshi da parte di un manipolo di soldati, che il popolo giapponese non compiangeva la scomparsa prematura e violenta di un primo ministro.
Novant’anni. Novant’anni esatti separano le morti di Abe e Inukai e le similitudini che le accomunano sono tanto magniloquenti da far sembrare lo spargimento di sangue dell’8.7.2022 un suggestivo déjà-vu del 15.5.1932. Entrambi i regicidi sono stati concepiti in ambienti militari, consumati ai danni di due nazionalisti moderati, compiuti all’interno di una società in fermento – oggi e ieri profondamente divisa tra revanscisti e apatici – e avvenuti in un contesto internazionale conflittuale – oggi la competizione tra grandi potenze, ieri l’antivigilia della Seconda guerra mondiale.
Focalizzarsi sulle somiglianze intercorrenti tra i due regicidi più importanti della storia del Giappone è importante, più che altro per la comprensione di quelle che potrebbero essere le implicazioni della scomparsa di Abe – l’abbandono delle velleità post-americane in favore di un approccio verso Russia e Cina maggiormente confrontazionale e meno improntato all’autonomismo? –, ma non aiuterebbe a spiegarli, a risalire alle loro origini remote. Perché un filo conduttore lega la scomparsa dei due moderati, nonché altre vicende macchiate di rosso – rosso sangue – della storia recente del Paese del Sol Levante, ed è l’eterna voglia di rivalsa del Giappone profondo.
Dicono i saggi cinesi che sia necessaria più di una giornata di gelo affinché si ghiacci un metro di fiume. Un altro modo per dire che, molto spesso – e ciò è particolarmente vero quando si parla di fenomeni politici, culturali e sociali –, dietro la materializzazione di qualcosa c’è stato un lungo periodo di germogliazione.
Abe è morto, ucciso per mano di un nostalgico del Sole nascente, ma le origini e le ragioni dell’omicidio più (geo)politicamente rilevante degli anni Venti del Duemila – insieme a quelli di Du Wei e Jan Hecker – hanno a che fare coi moventi personali di Yamagami soltanto in parte. Perché Yamagami non è che l’ultimo prodotto, per quanto perverso, della resistenza del Giappone profondo al Bunmei Kaika, cioè all’occidentalizzazione, che negli anni ha avuto una prole numerosa: estremisti di destra, rivoluzionari di sinistra, lupi solitari, terroristi apocalittici.
Il denominatore comune che lega Abe a Inukai(…) è uno: il senso di frustrazione, misto a livore e rancore, che attanaglia quel segmento di società che mai ha digerito l’inglobamento forzato del Giappone nell’orbita dell’Occidente. E che vorrebbe tornare indietro nel tempo, preferibilmente tra il periodo Meiji e il primo paragrafo dell’era Shōwa, con l’anelito di restituire il Giappone all’Asia e l’Asia al Giappone.
I detrattori del Giappone americano, al di là del credo professato, vedono nel traumatico e antistorico sganciamento della terra di Amaterasu dall’Asia l’origine di ogni male della contemporaneità: la secolarizzazione di usi, costumi e tradizioni, problematiche sociali come la cronicizzazione del suicidio, la post-sessualità, gli hikikomori, gli johatsu e i karoshi. Una convinzione, la loro, opinabile ma meritevole di ascolto. Ascolto che, però, gli è sempre stato negato – alimentando insofferenza e radicalizzazione.
Gli attori dell’ampio e variegato movimento antiamericano del Giappone possono differire nei metodi, talvolta anche nei fini, ma una convinzione viscerale li unisce: se il glorioso Paese del Sol Levante è l’ombra folcloristica, ignominiosa e macchiettistica di ciò che fu – dove anime, eroge, hentai, manga e shokushu goukan hanno sostituito bushido e shinto, e dove anonimi, cosmopoliti, apolitici e pacifisti otaku hanno rimpiazzato i samurai – sarebbe colpa dell’America.
Washington, lobotomizzando ed eunuchizzando i giapponesi, avrebbe conseguito un doppio risultato: la satellizzazione geopolitica di Tokyo e la massificazione dei suoi abitanti. Un esito congeniale al mantenimento di una potenza, geneticamente predisposta all’egemonia tra sinosfera e Pacifico occidentale, in una condizione (perpetua?) di vassallaggio indispensabile per la grand strategy degli Stati Uniti per l’Indo-Pacifico. Un’idea opinabile, di nuovo, ma meritevole di ascolto. E una delle concause di questo regicidio è proprio questa: Abe, come i suoi predecessori, mai ha voluto prestare l’orecchio alla (scomoda) voce dell’elettorato antiamericano.
Se i detrattori del Giappone americano periodicamente escono dall’ombra per uccidere, quando per compiere un regicidio e quando per commettere una strage, è (anche) perché la classe dirigente – di cui Abe era un capofila – è sempre stata sorda alla loro voce stridula. Come quando Abe, nel 2015, ignorò le maxi-proteste popolari contro il possibile invio di militari giapponesi all’estero – a difesa più dell’Interesse di Washington che di Tokyo. E come quando Abe, l’anno successivo, fece orecchie da mercante alla mobilitazione degli abitanti di Okinawa contro la base militare statunitense in loco dal 1945.
Non si tratta di giustificare l’ingiustificabile, ma di provare a comprendere. Comprendere che l’omicidio di Abe non è stato casuale, non è stato il gesto di un folle, e che per ogni giapponese in lutto, uno è in festa. Comprendere che sebbene il grilletto sia stato premuto da Yamagami, e che sebbene la sua scomparsa contenti (enormemente) taluni blocchi geopolitici e alcuni gruppi di interesse giapponesi, a caricare la pistola non sono stati né Yamagami né i nemici di Abe, ma il Giappone profondo dello Yamato-damashii. Comprendere che altri Yamagami e nuovi Asahara nasceranno, inevitabilmente, fino a quando la classe dirigente non prenderà atto della necessità di aprire un dibattito sul posto del Giappone nel mondo.
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