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L’ultimo canale del telecomando
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L’ultimo canale del telecomando

Un racconto inquietante e “profetico” di Italo Calvino


Redazione
Redazione
L’ultimo canale del telecomando
• 9 Luglio 2022 – Redazione
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Dal volume di racconti “Prima che tu dica ‘pronto’ ” (Mondadori, 1993)  proponiamo uno notevole esempio della visionarietà delle pagine di Italo Calvino, con un racconto incentrato sul nostro rapporto con le immagini televisive, la realtà, la nostra vita. (red)

Il mio pollice s’abbassa  indipendentemente dalla mia volontà: di momento in momento, a intervalli irregolari, sento il bisogno di premere, di schiacciare, di scoccare un impulso improvviso 

come un proiettile; se era questo che volevano dire quando m’hanno concesso la seminfermità mentale, hanno visto giusto. Ma sbagliano se credono che non ci fosse un disegno, un’intenzione ben chiara nel mio comportamento. Solo ora, nella calma ovattata e smaltata di questa stanzetta di clinica, posso smentire le incongruità che m’è toccato sentirmi attribuire al processo, da parte tanto dell’accusa quanto della difesa. Con questo memoriale che spero di far recapitare ai magistrati d’appello, benché i miei difensori vogliano a tutti i costi impedirmelo, intendo ristabilire la verità, la sola verità, la mia, se mai qualcuno sarà in grado di capirla. 

I medici annaspano nel buio anche loro, ma almeno vedono con favore il mio proposito di scrivere e m’hanno concesso questa macchina e questa risma di carta: credono che ciò rappresenti un miglioramento dovuto al fatto di ritrovarmi rinchiuso in una stanza senza televisore e attribuiscono la cessazione dello spasimo che mi contraeva una mano all’avermi privato del piccolo oggetto che impugnavo quando sono stato arrestato e che ero riuscito (le convulsioni che minacciavo ogni volta che me lo strappavano di mano non erano simulate) a tenere con me durante la detenzione, gli interrogatori, il processo. (E come avrei potuto spiegare – se non dimostrando che il corpo del reato era diventato una parte del mio corpo – ciò che avevo fatto e pur senza riuscire a convincerli – perché l’avevo fatto?) 

La prima idea sbagliata che si sono fatti di me è che la mia attenzione non possa seguire per più di pochi minuti una successione coerente d’immagini, che la mia mente riesca a captare solo frantumi di storie e di discorsi senza un prima né un dopo, insomma che nella mia testa si sia spezzato il filo delle connessioni che tiene insieme il tessuto del mondo. 

Non è vero, e la prova che portano a sostegno della loro tesi – il mio modo di stare immobile per ore e ore davanti al televisore acceso senza seguire nessun programma, costretto come sono da un tic compulsivo a saltare da un canale all’altro – può ben dimostrare proprio il contrario. Io sono convinto che un senso negli avvenimenti del mondo ci sia, che una storia coerente e motivata in 

tutta la sua serie di cause e d’effetti si stia svolgendo in questo momento da qualche parte, non irraggiungibile dalla nostra possibilità di verifica, e che essa contenga la chiave per giudicare e comprendere tutto il resto. 

E questo convincimento che mi tiene inchiodato a fissare il video con gli occhi abbacinati mentre gli scatti frenetici del telecomando fanno apparire e scomparire interviste con ministri, abbracci 

d’amanti, pubblicità di deodoranti, concerti rock, arrestati che si nascondono il viso, lanci di razzi spaziali, sparatorie nel West, volteggi di ballerine, incontri di boxe, concorsi di quiz, duelli di samurai. Se non mi fermo a guardare nessuno di questi programmi è perché il programma che cerco io è un altro, e io so che c’è, sono sicuro che non è nessuno di questi, e questi li trasmettono solo per trarre in inganno e scoraggiare chi come me è convinto che sia l’altro programma quello che conta. 

Per questo continuo a passare da un canale all’altro: non perché la mia mente sia ormai incapace di concentrarsi neppure quel minimo che ci vuole per seguire un film o un dialogo o una corsa di cavalli. Al contrario: la mia attenzione è già tutta proiettata su qualcosa che non posso assolutamente mancare, qualcosa di unico che sta producendosi in questo momento mentre ancora il mio video è ingombro d’immagini superflue e intercambiabili, qualcosa che dev’essere già cominciato e certo ne ho perduto l’inizio e se non m’affretto rischio di perderne pure la fine. Il mio dito saltella sulla tastiera del selettore scartando gli involucri della vana apparenza come spoglie sovrapposte d’una cipolla multicolore. Intanto il vero programma sta percorrendo le vie dell’etere su una banda di frequenza che io non conosco, forse si perderà nello spazio senza che io possa intercettarlo: c’è una stazione sconosciuta che sta trasmettendo una storia che mi riguarda, la mia storia, l’unica storia che può spiegarmi chi sono, da dove vengo e dove sto andando. Il solo rapporto che posso stabilire in questo momento con la mia storia è un rapporto negativo: rifiutare le altre storie, scartare tutte le immagini menzognere che mi si propongono. Questo pulsare di tasti è il ponte che io getto verso quell’altro ponte che s’apre a ventaglio nel vuoto e che i miei arpioni non riescono ad agganciare: due ponti discontinui d’impulsi elettromagnetici che non si congiungono e si perdono nel pulviscolo d’un mondo frantumato. 

E stato quando ho capito questo che ho cominciato a brandire il telecomando non più verso il video, ma fuori della finestra, sulla città, le sue luci, le insegne al neon, le facciate dei grattacieli, i pinnacoli sui tetti, i tralicci delle gru dal lungo becco di ferro, le nuvole. Poi sono uscito per le vie col telecomando nascosto sotto l’ala del mantello, puntato come un’arma. Al processo hanno detto che odiavo la città, che volevo farla scomparire, che ero spinto da un impulso di distruzione. Non è vero. Amo, ho sempre amato la nostra città, i suoi due fiumi, le rare piccole piazze alberate come laghi d’ombra, il miagolio straziante delle sirene delle ambulanze, il vento che prende d’infilata le Avenues, i giornali spiegazzati che volano raso terra come stanche galline. 

So che la nostra città potrebb’essere la più felice del mondo, so che lo è, non qui sulla lunghezza d’onda in cui io mi muovo ma su un’altra banda di frequenza, è li che la città che ho abitato per tutta la mia vita diventa finalmente il mio habitat. È quello il canale che cercavo di sintonizzare quando puntavo il selettore sulle vetrine scintillanti delle gioiellerie, sulle facciate maestose delle banche, sui baldacchini e le porte girevoli dei grandi alberghi: a guidare i miei gesti era il desiderio di salvare tutte le storie in una storia che fosse anche la mia: non la malevolenza minacciosa e ossessiva di cui sono stato accusato. 

Annaspavano tutti nel buio: la polizia, i magistrati, i periti psichiatrici, gli avvocati, i giornalisti. Condizionato dal bisogno compulsivo di cambiare continuamente canale, un telespettatore impazzisce e pretende di cambiare il mondo a colpi di telecomando: questo lo schema che con poche varianti è servito a definire il mio caso. Ma i test psicologici hanno sempre escluso che in me ci fosse la vocazione dell’eversore; anche il mio grado d’accettazione dei programmi attualmente in corso non si distacca di molto dalla media degli indici di gradimento. Forse cambiando canale non cercavo lo sconvolgimento di tutti i programmi ma qualcosa che qualsiasi programma potrebbe comunicare se non fosse corroso dal di dentro dal verme che snatura tutte le cose che circondano la mia esistenza. 

Allora hanno escogitato un’altra teoria, adatta a farmi rinsavire, essi dicono; anzi, attribuiscono all’essermene io convinto da solo il freno inconscio che m’ha trattenuto dagli atti criminosi che mi credevano pronto a commettere. E la teoria secondo la quale si ha un bel cambiare canale ma il programma è sempre lo stesso o è come se lo fosse, sia film o notiziario o pubblicità che venga trasmesso, ilmessaggio è uno solo da tutte le stazioni perché tutto e tutti facciamo parte d’un sistema; e anche fuori del video, il sistema invade tutto e non lascia spazio che a cambiamenti d’apparenza; dunque che io m’agiti tanto con la mia tastiera o che me ne stia a mani in tasca fa proprio lo stesso, perché dal sistema non riuscirò mai a scappare. 

Non so se quelli che sostengono queste idee ci credono o se lo dicono solo pensando di mettermi in mezzo; comunque su di me non hanno mai avuto presa perché non possono scalfire la mia convinzione sull’essenza delle cose. Per me ciò che conta nel mondo non sono le uniformità ma le differenze: differenze che possono essere grandi o anche piccole, minuscole, magari impercettibili, ma quel che conta è appunto il farle saltar fuori e metterle a confronto. Lo so anch’io che a passare da canale a canale l’impressione è d’un’unica minestra; e so anche che i casi della vita sono stretti da una necessità che non li lascia variare più di tanto: ma è in quel piccolo scarto che sta il segreto, la scintilla che mette in moto la macchina delle conseguenze, per cui le differenze poi diventano notevoli, grandi, grandissime e addirittura infinite. Guardo le cose intorno a me, tutte storte, e penso che un niente sarebbe bastato, un errore evitato a un determinato momento, un si o un no che pur lasciando intatto il quadro generale delle circostanze avrebbe portato a conseguenze tutte diverse. Cose cosi semplici, cosi naturali, che m’aspettavo sempre che stessero per svelarsi da un momento all’altro: pensare questo e premere i pulsanti del selettore era tutt’uno. 

Con Volumnia avevo creduto d’aver imbroccato finalmente il canale giusto. Difatti, durante i primi tempi della nostra relazione, lasciai riposare il telecomando. Tutto mi piaceva di lei, la pettinatura 

a chignon color tabacco, la voce quasi da contralto, i pantaloni alla zuava e gli stivali appuntiti, la passione da me condivisa per i bulldog e per i cactus. Ugualmente confortevoli trovavo i suoi genitori, le località dove essi avevano effettuato investimenti immobiliari e dove trascorrevamo corroboranti periodi di vacanza, la società d’assicurazioni in cui il padre di Volumnia m’aveva promesso un impiego creativo con cointeressenza dopo il nostro matrimonio. Tutti i dubbi, le obiezioni, le ipotesi che non convergessero nel senso voluto cercavo di scacciarle dalla mia 

mente, e quando m’accorsi che si ripresentavano sempre più insistenti, cominciai a domandarmi se le piccole incrinature, i malintesi, gli impacci che fin’allora m’erano apparsi come offuscamenti momentanei e marginali non potessero essere interpretati come presagi delle prospettive future, cioè che la nostra felicità contenesse latente la sensazione di forzatura e di noia che si prova con un cattivo teleromanzo. Eppure la mia convinzione che Volumnia e io fossimo fatti l’uno per l’altra non veniva mai meno: forse su un altro canale una coppia identica alla nostra ma che il destino aveva dotata di doni solo leggermente diversi s’accingeva a vivere una vita cento volte più attraente… 

Fu con questo spirito che quel mattino alzai il braccio impugnando il telecomando e lo diressi verso le corbeille di camelie bianche, verso il cappellino guarnito di grappoli azzurri della madre di Volumnia, la perla sulla cravatta a plastron del padre, la stola dell’officiante, il velo ricamato d’argento della sposa… Il gesto, nel momento in cui tutti gli astanti s’aspettavano il mio sì, fu male interpretato: da Volumnia per prima, che vi vide una ripulsa, uno sfregio irreparabile. Ma io volevo significare solo che di là, su quell’altro canale, la storia di Volumnia e mia correva lontano dal tripudio delle note dell’organo e dei flash dei fotografi, ma con molte cose di più che l’identificavano alla verità mia e sua… 

Forse su quel canale al di là di tutti i canali la nostra storia non è finita. Volumnia continua ad amarmi, mentre qui, nel mondo in cui io abito non sono più riuscito a farle intendere le mie ragioni: non ha più voluto vedermi. Da quella rottura violenta non mi sono più sollevato; è da allora che ho cominciato quella vita che è stata descritta sui giornali come quella d’un demente senza fissa dimora, che vagava per la città armato del suo aggeggio incongruente… Invece mai come allora i miei ragionamenti sono stati chiari: avevo capito che dovevo cominciare ad agire dal vertice: se le cose vanno per storto su tutti i canali, ci dev’essere un ultimo canale che non è come gli altri in cui i governanti, forse non troppo diversi da questi ma con dentro di sé qualche piccola differenza nel carattere, nella mentalità, nei problemi di coscienza, possono fermare le crepe che s’aprono nelle fondamenta, la sfiducia reciproca, il degradarsi dei rapporti umani… 

Ma la polizia mi teneva d’occhio da tempo. Quella volta che di tra la folla assiepata a veder scendere dalle macchine i protagonisti del grande incontro dei Capi di Stato mi feci largo e m’intrufolai tra le vetrate del palazzo, in mezzo agli schieramenti dei servizi di sicurezza, non feci in tempo ad alzare il braccio col telecomando puntato e mi furono tutti addosso trascinandomi via, per quanto protestassi che non volevo interrompere la cerimonia ma solo vedere cosa davano sull’altro canale, per curiosità, solo per pochi secondi.

Italo Calvino, “L’ultimo canale”, da Prima che tu dica “pronto”, Mondadori, 1993






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