Giovanni Orelli e i classici per tutti
Le letture e i consigli di uno scrittore vorace, in un volume che esce domani: alcune domande al suo curatore, Pietro Montorfani
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Le letture e i consigli di uno scrittore vorace, in un volume che esce domani: alcune domande al suo curatore, Pietro Montorfani
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Pietro Montorfani, da dove nasce l’idea di questa antologia? Nella grande messe di recensioni e segnalazioni scritte da Orelli in così tanti anni, oltre novecento pezzi firmati, non deve essere stata una scelta semplice…
Il primo passo nella direzione che ha portato, a distanza di tempo e in assenza oramai del diretto interessato, a immaginare questo libro lo ha compiuto in realtà lo stesso Giovanni Orelli chiedendomi, credo fosse il 2014, di raccogliere un elenco delle sue collaborazioni per «Azione». Avevo fatto qualcosa di simile per la bibliografia di suo cugino Giorgio. Naturalmente gli dissi di sì, senza immaginare la montagna che avrei dovuto scalare. Un primo esito della ricerca era stato presentato nel dicembre del 2018 nell’ambito del convegno internazionale a lui dedicato, organizzato dall’Archivio svizzero di letteratura e dall’Università di Berna. Ma ero ancora lungi dall’immaginare il libro che esce oggi, anche perché le “piste” avrebbero potuto essere potenzialmente infinite: gli autori della letteratura italiana? i grandi romanzi stranieri? i testimoni dell’espressionismo letterario? le questioni linguistiche e i dizionari? l’identità culturale della Svizzera italiana? Tale era l’ampiezza del suo ventaglio di interessi che bisognava giocoforza scegliere un tema solo, e alla fine abbiamo optato per i classici in senso lato. Uso il plurale perché nel montare il volume non è stato secondario il dialogo con l’editore, soprattutto nella persona di Magda Mandelli, e con la famiglia dello scrittore.
L’impressione infatti è che Giovanni Orelli avesse un’idea molto elastica di “classico” della letteratura. Come la potremmo definire, alla luce di questa nuova pubblicazione?
Rispondo come avrebbe risposto lui, citando uno dei suoi autori preferiti, cioè Franz Kafka: «Un libro deve essere l’ascia per il mare di ghiaccio dentro di noi». Kafka lo diceva di Dante e Mandel’štam, o meglio del Dante di Mandel’štam, ma la regola è valida sempre. Il vero “classico” è per Orelli quel libro che riesce a «fare breccia nel muro dell’indifferenza», a lasciare il segno in noi in modo duraturo, indipendentemente dall’epoca della nostra vita in cui lo leggiamo. Secondo questa categoria, davvero molto ampia, sono classici sia Cicerone e Goethe, sia Gadda e Cristina Campo. Rimpiangeva di non poter leggere in lingua originale dei giganti della letteratura russa come Puškin o Tolstoj (adorava ad esempio i suoi diari), e per questo era infinitamente grato a chi si sobbarcava l’enorme e difficilissimo compito della traduzione, «una scalata di sesto grado», come la definiva lui. Era inoltre molto fedele ad alcuni editori, come Garzanti o Adelphi, perché impegnati a tenere viva la memoria di alcuni scrittori dimenticati, senza per questo rinunciare alle nuove scoperte.
Quindi non un canone scolasticamente inteso, ma semmai un gruppo aperto anche agli autori contemporanei.
Quel che mi sorprende è che Orelli partiva proprio dalla scuola, dalla sua esperienza di insegnante liceale, per provare a scuotere anche sui giornali quello che potremmo definire l’albero del canone: per verificarne la tenuta, per vedere se un autore (citiamo Bembo? citiamo Alfieri?) aveva ancora qualcosa da dire ai lettori del nostro tempo, oppure se le sue foglie potevano anche staccarsi e restare confinate in ambito accademico. Vedeva questo problema soprattutto nella letteratura italiana, che certo è quella che lui meglio conosceva e con cui lavorava quotidianamente, ma è anche tra le più letterarie e formalizzate, tra le più erudite. Ogni tanto, seguendo il consiglio di Kafka, prestava ai suoi studenti i romanzi di Hemingway e di John Steinbeck, con grande elasticità pedagogica per l’epoca. Lo stesso avveniva su «Azione», con la libertà però di fare anche il contrario, cioè di consigliare un Rabelais o un Montaigne quali letture ideali per le vacanze (quando tutti leggevano L’insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera o, magari, qualche romanzo di Ken Follett).
Dalla lettura di questo libro emerge in trasparenza anche quale è stato il suo ruolo nel dibattito culturale della Svizzera italiana.
Certamente, e direi sul duplice fronte della divulgazione (alta) e della cultura politica (di sinistra), due ambiti che era capace a volte di coniugare alla perfezione nella scelta di scrittori che fossero anche testimoni sofferti della loro epoca, come il Varlam Šalamov dei Racconti di Kolyma, o il Tommaso Campanella dei sonetti sulla prigionia. Se sfogliamo i contributi che ha pubblicato su «Azione» sull’arco di un quarantennio, non sono pochi i riferimenti all’attualità, dal disastro di Chernobyl alle proteste di Piazza Tienanmen fino alla guerra in Kosovo: non era un lettore astratto, fuori dal mondo, anzi, aveva ben presente che la letteratura parla sempre della vita, e che a quella bisogna in qualche modo ritornare. Questo suo contributo “pedagogico”, anche al di fuori dalle aule vere e proprie e della sua attività professionale di docente, è stato io credo il principale dono che ha fatto al dibattito culturale della Svizzera italiana.
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