All’indomani del mancato successo del referendum costituzionale in Cile
Il continente latino-americano si confronta, una volta di più, con spinte politiche estreme in un crescente contesto di disuguaglianza sociale
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Il continente latino-americano si confronta, una volta di più, con spinte politiche estreme in un crescente contesto di disuguaglianza sociale
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Il continente latino-americano si confronta, una volta di più, con spinte politiche estreme in un crescente contesto di disuguaglianza sociale
Col 62% di “no” al referendum costituzionale di domenica scorsa in Cile si è andati purtroppo ben oltre le già pessimistiche previsioni della vigilia. Si è interrotto così traumaticamente un promettente percorso di emancipazione (che doveva essere definitiva) dal neoliberismo dei tempi di Augusto Pinochet. Un percorso che aveva preso il via con le rivolte popolari dell’autunno 2019, seguite l’anno dopo dal 78% del plebiscito che ha disposto una riforma della costituzione; e, nel maggio 2021, dalla nomina di redattori del nuovo testo maggioritariamente progressisti. Per arrivare all’elezione a presidente di Gabriel Boric, insediatosi nel marzo scorso alla testa di un ampio schieramento di sinistra.
Al di là delle inesorabili manipolazioni mediatiche della destra, la formulazione della nuova carta magna è apparsa talmente “sbilanciata” in senso progressista che i settori moderati, in tutte le regioni del paese, hanno finito per sommarsi nel “rifiuto” a quelli reazionari. Oltre a tematiche come il diritto alla casa, la parità di genere, la difesa dell’ambiente… a preoccupare è stato soprattutto il concetto di plurinazionalità, con il riconoscimento di uguali diritti per i popoli nativi (il 12% della popolazione); che poteva significare l’espropriazione ai latifondisti di territori da loro storicamente rivendicati. Non è un caso che la presidente della costituente, Elisa Loncón, fosse nientemeno che un’indigena mapuche. Nel tormentato processo di stesura della carta costituzionale, il cenno al diritto all’aborto ha messo poi in allerta l’intero elettorato democristiano, oltre a quello tradizionalmente conservatore.
Sta di fatto che così come alle elezioni presidenziali dello scorso anno il nostalgico candidato pinochetista, Antonio Kast, è stato battuto dal giovanissimo Boric subito al primo turno, allo stesso modo in questo appuntamento referendario (che prevedeva il voto obbligatorio) si è registrata all’opposto la sonora bocciatura di un progetto ritenuto eccessivamente avanzato. Confermando l’estrema polarizzazione della nazione cilena, in un paese tra i più benestanti del Centro e Sudamerica ma che vanta al contempo il record di disuguaglianze sociali.
Resterà dunque in vigore l’infausta costituzione pinochetista del 1980, in attesa che venga comunque obbligatoriamente riformata, come stabilito da quella prima consultazione popolare dell’ottobre 2020. Ma per il giovanissimo presidente Boric, già in discesa nei consensi, si profila un percorso assai complicato. Sarà ora la destra a dettare le condizioni per la stesura del nuovo testo costituzionale, tenendo conto che dovrà ottenere in prima istanza il favore dei 4/7 del parlamento. Boric è stato poi costretto ad operare un primo rimpasto dei ministri del suo governo a soli sei mesi dalla sua entrata al Palacio de la Moneda.
Allo stesso modo si è profilato assai impervio, sin dalle prime battute, il percorso del primo capo di stato di sinistra in Colombia, l’ex “guerrillero” Gustavo Petro, che ha assunto la carica da appena un mese, nel paese che ha registrato il conflitto bellico interno più antico e prolungato del subcontinente, oltre alla più sistematica e brutale eliminazione fisica (tutt’oggi) di attivisti sociali e comunitari. Senza contare che la Colombia è l’unico stato in America Latina ad essere associato alla Nato; e di conseguenza più militarmente legato agli Usa.
Non sarà poi per niente semplice per Lula tornare a governare il colosso Brasile nell’ipotesi che nell’ottobre prossimo riesca a sconfiggere (come suggeriscono al momento i sondaggi) l’uscente Jair Bolsonaro. Nel qual caso si completerebbe la nuova ondata latinoamericana della sinistra che lascerebbe fuori solo le conduzioni di destre estreme in Ecuador e in Paraguay (con l’Uruguay retto da una destra passabilmente democratica).
Un trend che ripeterebbe quello ben più marcato di inizio del nuovo millennio: con alla testa il bolivariano Hugo Chavez in Venezuela, spalleggiato da Evo Morales in Bolivia (il cui partito Mas è tornato al potere lo scorso anno dopo il golpe istituzionale del 2019), di Pepe Mujica in Uruguay e dei fratelli Castro a Cuba. E col brasiliano Lula, Michelle Bachelet in Cile e i coniugi Kirchner in Argentina a fare allora da sponda moderata di quella straordinaria spinta verso il cambiamento.
Argentina che, dopo il fallito attentato alla vicepresidente Cristina Kirchner consumatosi due giorni prima l’infausto esito referendario del confinante Cile, potrebbe decidere di anticipare le elezioni presidenziali.
Ma il dilemma nel subcontinente latinoamericano è sempre quello di come superare le contraddizioni che ne fanno la regione più violenta al mondo in tempo di pace, contando 43 delle cinquanta città con gli indici più alti di morti ammazzati ogni centomila abitanti. E non perché sia campione di povertà, bensì per la peggiore distribuzione delle ricchezze. Dove, dopo il sistema coloniale dei conquistadores (oligarchia versus peones) ereditato dagli Stati Uniti, si è diffuso il sistema a libero mercato più selvaggio del pianeta. Con gli Usa che da George Bush jr. in poi se ne occupano sempre meno. Mentre la Cina imperversa discretamente sempre di più.
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