La morte di un ribelle condannato dal suo stesso tradimento
Il ‘perdono’ di Putin a Prigozhin era solo apparenza, e tutti lo sapevano; perché non vi fu solo la “marcia su Mosca”, ma ancor più il contro-racconto dei motivi della guerra in Ucraina
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Il ‘perdono’ di Putin a Prigozhin era solo apparenza, e tutti lo sapevano; perché non vi fu solo la “marcia su Mosca”, ma ancor più il contro-racconto dei motivi della guerra in Ucraina
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Il ‘perdono’ di Putin a Prigozhin era solo apparenza, e tutti lo sapevano; perché non vi fu solo la “marcia su Mosca”, ma ancor più il contro-racconto dei motivi della guerra in Ucraina
Proprio come l’adolescente Vladimir Putin, è nei quartieri malfamati di San Pietroburgo (allora Leningrado) che Evgeny Prigozhin fu ragazzo irrequieto e violento. Il primo, Vladimir, lo racconta nelle sue memorie. Dando a quel periodo un significato pedagogico, tutto si può imparare nella vita di strada. Pagine in cui il futuro presidente ricorda di essersi allora convinto che “colpire per primo significa colpire più duro”, oppure che “ti puoi aspettare di tutto da un rivale disperato perché messo con le spalle al muro”; ma nelle quali racconta anche come riuscì ad affrancarsi da una gioventù che rischiava di ‘bruciarlo’: prima tappa la palestra, poi la pratica del judo, quindi l’autodisciplina, infine lo studio e il reclutamento nei ranghi del KGB. Temperamento d’acciaio.
Molto diverso il tragitto del suo futuro amico e sodale Evgeny (infine rinnegato e platealmente eliminato) , ragazzo intraprendente ma anche testa calda, esuberante, piccolo criminale, entrato in galera per un borseggio finito molto male. Ne uscì quando l’Urss stava per crollare, e si inventò un mestiere di mini-imprenditore da strada: venditore di hot dog. Non proprio un prologo da futuro oligarca, i favoriti dalle privatizzazioni eltsiniane, che consentirono a pochi di rastrellare milioni di mini-azioni distribuite a ogni cittadino ex sovietico, che in realtà era prontissimo a sbarazzarsene al più presto, anche a prezzi stracciati, non essendo né formato né convinto né affascinato da un debutto di capitalismo caotico, incomprensibile e per nulla popolare. No, Prigozhin fu un’altra cosa, non un favorito ma quasi l’archetipo dei primi solitari “self made men” (di stampo statunitense) apparsi fra le macerie dell’ex impero della dittatura proletaria per farne un nuovo regno del capitalismo rampante.
Ma nemmeno la sua sfacciataggine e la riuscita negli affari (aprì poi una catena di ristoranti) sarebbero bastati per farlo entrare nelle stanze del potere. Ci volle, per questo, l’incontro con l’ex ufficiale dei servizi segreti nella Germania orientale, Vladimir Putin, nel frattempo diventato il factotum dell’allora sindaco di San Pietroburgo, Anatoly Sobchak, un ‘mammasantissima’ del nuovo potere post-sovietico, che avrebbe potuto ambire alle torri del Cremlino. Dietro le quinte, Putin assecondava gli affaristi (e gran corruttori) vicini al suo ‘boss’, e già cominciava ad organizzare la rete di agenti e funzionari che avrebbe poi portato con sé, e imposto, a Mosca.
Ma servirlo a tavola in uno dei suoi ristoranti ancora non poteva di per sé bastare all’ascesa dello “chef di Putin”. Fu di nuovo il suo spirito imprenditoriale a mettere Prigozhin sui binari giusti. Quando capì, o gli fecero capire, che, contrariamente alla legge russa che lo vietava esplicitamente, mettere in piedi un battaglione di mercenari (alla fine, oltre 20 mila miliziani) gli sarebbe stato molto utile. Per il business, per riempirsi le saccocce, ma anche per le sue ambizioni politiche. Così fu, e l’ex venditore di hot dog organizzò la sua ‘opa amichevole’ per impossessarsi di qualcosa che già esisteva ‘in nuce’ come gruppo privato di auto-difesa, e che lui trasformerà nella Wagner come l’abbiamo conosciuta: corpaccione super-armato, simpatie di estrema destra con deviazioni filo naziste, casse piene di rubli e di dollari, milionarie commesse per il vettovagliamento dell’esercito. Ma poi, e soprattutto, nella strategia del Cremlino putiniano, la Wagner doveva essere, e sarà, il braccio armato (spesso violentissimo e disumano) non ufficiale della Russia nei paesi dell’instabilità africana e medio-orientale: dittature stracariche di potenzialità e di materie prime, che interessano economicamente a Mosca, insieme al tentativo di inserirsi insieme alla Cina nella strategia di sottrarre quella parte povera ma succosissima di “sud globale” alla seduzione per un Occidente ingrato e sempre colpevole di avido neo-colonialismo.
Dopo anni di ridicoli dinieghi e di smentite inverosimili, nessuno si sorprese dunque quando venne ufficializzato che la Wagner (nome sinistro, scelto perché il compositore tedesco era il favorito di Hitler) era stata foraggiata e armata alla grande dal ministero russo della difesa, e che si era formata grazie a manovre e volontà del “Gru”, i servizi segreti dell’esercito: naturalmente, progetto impossibile senza il decisivo e generoso “da”, dunque il “sì”, del neo-zar. Che ampiamente se ne servì nel 2014, anno delle tre auto-proclamate Repubbliche del Donbass (sostenute, segreto di pulcinella, dagli ‘omini verdi’, soldati senza insegne, infiltratisi dalla Russia, e fra questi non pochi “wagneriani”) e dell’annessione della Crimea nella Federazione. Prodromi e pre-disposizione della guerra-invasione dell’Ucraina otto anni dopo.
Quindi, Prigozhin piena espressione del sistema-Putin. Con la bizzarria militare per cui a lui, e non all’esercito, venne affidata poi la battaglia di Bachmut. Dove cominciarono i problemi. Il “cuoco” in difficoltà di fronte alla resistenza degli assediati ucraini che denuncia i suoi “nemici interni”, il ministro della difesa Sergei Shoigu e il capo di stato maggiore Valery Gerasimov, accusati di non fornire le armi necessarie ai suoi uomini troppo esposti, mentre loro, “inetti e corrotti”, silenziosamente ostili alla Wagner e al suo comandante, se ne stanno comodamente nei salotti di casa e negli oziosi uffici di Mosca. Con i figli non impegnati al fronte, ma nelle migliori discoteche moscovite. Indiretta critica al capo del Cremlino, a cui in sostanza rimprovera di non liberarsi dei due massimi vertici militari, responsabili della sconfitta russa sul terreno. Infine, l’attacco diretto al presidente, quando un Prigozhin ormai esasperato, sempre meno controllabile, sempre più convinto di una sua solida ascesa al palco della politica nazionale, contestò la narrazione ufficiale sui motivi della guerra all’Ucraina: “per nulla colpa della Nato”, osò affermare, ma del brigantaggio degli incapaci responsabili delle decine di migliaia di militi russi, “carne da macello” mandati al massacro.
Troppo anche per l’amico, ormai ex amico, Vladimir Putin. Che decide in pratica la fine della Wagner indipendente dal potere centrale: ne ordina lo scioglimento o l’integrazione nelle fila delle forze armate, con salario dalle cinque alle dieci volte inferiore rispetto a quello percepito come mercenari. E’ l’ultima goccia. Il contestatore diventa ribelle, e tutto precipita. L’ammutinamento, l’arrivo incontrastato a Rostov sede del quartier generale russo per la guerra in Ucraina, la marcia “della libertà” su Mosca, il volto ancora più cereo di Putin. Che infine parla di “tradimento”, di “coltellata alla schiena”, di pericolo di “un nuovo 1917”, quando (e sembra di ascoltare un estimatore della “Russia bianca” reazionaria) furono le “lacerazioni interne” a indebolire il potere imperial-zarista e spalancare le porte alle rivoluzioni menscevica prima e poi bolscevica.
Dopo tre giorni, Prigozhin capisce di doversi fermare. I russi non sono scesi in strada per difendere Putin, ma nemmeno per incoraggiare gli insorti, nella grande incertezza vogliono un tranquillizzante statu quo; l’unico pezzo grosso nell’esercito che sapeva e avrebbe deciso di sostenerlo è il generale Surovikin (“il macellaio di Siria”), oggi ufficialmente licenziato; e poi l’Occidente (Nato, Usa, Europa) “vota per Putin”, perché un vuoto di potere a Mosca è incontrollabile e accresce il pericolo ‘atomico’, che potrebbe finire in troppe mani. Il ribelle ferma tutto e comincia a sostenere che “non si tratta di tentato golpe, ma di semplice protesta”.
La presunta mediazione del bielorusso Lukashenko è solo pura scenografia, senza sostanza. Putin sottrae momentaneamente il suo “ex che” dall’accusa pesantissima di insurrezione, gli lascia la libertà di rifugiarsi a Minsk, persino (se lo gradisse) di tornare ad occuparsi dei safari armati in Africa. Ma tutti lo sanno. Tutti scommettono. Tutti prevedono che l’avventura e la vita del ribelle sono molto vicini al capolinea. Bisogna anche far capire definitivamente al mondo chi comanda al Cremlino. La vendetta è questione di ore. E colpisce nel pomeriggio di ieri. Dentro il jet che nelle immagini cade fumante e in picchiata mentre viaggiava verso San Pietroburgo, c’è anche lui, il ribelle imperdonabile, insieme al numero due del gruppo mercenario e alle guardie del corpo. “Ucciso dai traditori della patria, con conseguenze disastrose”, strepitano subito i mezzi di comunicazione che i mercenari ancora controllano. Ucciso dalla contraerea russa. Ucciso dal suo stesso tradimento. Mentre nel momento in cui avviene la tragedia, il “mandante” dell’abbattimento dell’aereo del vertice wagneriano, Vladimir, Putin celebrava il ricordo della vittoria dell’Armata Rossa a Kursk, che ottant’anni fa decise la fine dell’occupazione nazista dell’Ucraina. Dove ora lo zar gioca la sua tragica guerra.
Nell’immagine: i resti dell’aereo di Prigozhin
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