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Pietro Montorfani
Pietro Montorfani
Arbedo, 1422
• 23 Giugno 2022 – Pietro Montorfani
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Cosa ce ne facciamo oggi del ricordo di una feroce battaglia? La domanda è pertinente e tocca nel profondo la gestione di ogni memoria storica, la necessità e la volontà della sua preservazione e infine il rischio – da mai sottovalutare – di un suo possibile utilizzo ideologico. Il bello è che la forza dei simboli è tale che persino un ricordo negativo come una sconfitta militare può diventare un catalizzatore di energie per il futuro, anche a fini, purtroppo, non sempre nobili. Il nazionalismo serbo che si nutre dell’orgoglio represso della “Piana dei Merli” (1389) è un esempio noto a tutti e ancora molto attivo, ahimè, all’inizio del terzo millennio.

Se vale la pena di spendere qualche parola su quanto avvenne nei campi a nord di Bellinzona l’ultimo giorno di giugno del 1422, in un’epoca che non assomiglia neanche lontanamente alla nostra (o forse sì?), è soltanto per la convinzione che alcuni nodi della nostra identità di svizzeri di lingua italiana non siano stati ancora del tutto sciolti a distanza di tanti secoli, e che permangano ingarbugliati da allora, come sovente avviene nelle regioni di frontiera.

Delle tormentate vicende belliche che hanno contraddistinto la nostra regione nel corso del XV secolo una soltanto ha avuto, nel Novecento, una vasta eco presso il grande pubblico: la battaglia di Giornico del 1478, quella dei “Sassi Grossi” e della statua di Apollonio Pessina inaugurata in pompa magna per il quinto centenario dello scontro, immagine della sconfitta dei milanesi a opera di un manipolo di urani e leventinesi asserragliati nelle gole del Piottino. Una vittoria epica (per chi veniva da nord) e una sconfitta umiliante (per la cavalleria sforzesca): un’interpretazione apparentemente molto chiara, anche perché scritta con l’inchiostro dei vincitori – gli stessi che, nel 1755, repressero nel sangue sulla piazza di Faido la piccola rivolta di Leventina, gettando un’ombra non da poco sulle conquiste comuni dei secoli precedenti.

Arbedo fu invece una dura ed evidente sconfitta del fronte confederato per mano dei milanesi del nuovo duca Filippo Maria Visconti e del suo capace condottiero, Francesco Bussone detto “il Carmagnola”. La posta in gioco, va da sé, era la riconquista della roccaforte di Bellinzona, che i De Sacco avevano ottenuto all’inizio del secolo e che avevano da poco venduto sottobanco agli svizzeri, scontentando le ambizioni dei Visconti. Se un uccello avesse osservato i fatti dall’alto, la mattina del 30 giugno 1422, avrebbe notato qualche centinaio di urani che in modo molto poco “svizzero” si sparpagliavano verso la Mesolcina per compiere razzie indiscriminate, mentre un esercito di 16000 soldati (di cui 5000 a cavallo) faceva strage dei loro compagni nella piana acquitrinosa di Molinazzo. Fu, per l’epoca, una battaglia piuttosto cruenta – i morti si contarono a centinaia – al punto che si decise di richiamarne il sangue nel colore rosso dell’antistante chiesetta di San Paolo.

Chi vinse? Chi perse? La storiografia svizzera ha fatto della battaglia di Arbedo un uso ambivalente: quasi del tutto dimenticata in Ticino, perché non utile alla causa patriottica, è celebrata invece a Zugo per le gesta eroiche del landamano Peter Kolin in difesa del vessillo cantonale. In qualche stampa d’epoca viene addirittura indicata, per ragioni che rimangono misteriose, come una “vittoria” degli svizzeri sui milanesi… (su tutti questi temi è di prossima uscita un interessantissimo studio di Francesco Cerea, che ringrazio per le anticipazioni).

Ma la domanda rimane: cosa ce ne facciamo oggi di quella battaglia? Sarebbe un peccato non tornare ad affrontare quell’evento storico, con il distacco che si impone in simili casi, come se non fosse l’ultima dimostrazione evidente del nostro attaccamento alla tradizione culturale italiana, poco prima che il galletto dei venti iniziasse a girare vistosamente verso settentrione. Dopo Arbedo le sorti cambiano e le conquiste svizzere a sud delle Alpi si fanno sempre più convinte e irreversibili: un’erosione continua compiuta un pezzo alla volta, prima la Leventina, poi Blenio e Riviera, fino al 1478, al 1513 e alla nascita dei cosiddetti “baliaggi italiani” (il termine “Svizzera italiana”, come ha dimostrato Ariele Morinini, è un’invenzione del tardo Settecento), quando sulla carta d’Europa si disegnò per la prima volta il triangolo rovesciato che accoglie le vallate prealpine racchiuse tra Chiasso ed Airolo.

Interrogarsi su chi abbia vinto ad Arbedo – se i bellinzonesi di allora, nostri progenitori, o i milanesi che li difendevano e contemporaneamente li riconquistavano – significa chiederci chi siamo noi oggi, e in quale misura dobbiamo la nostra identità (multipla, meticcia, insomma un po’ “sporca”) a quell’aria che spirava da sud e che per molti secoli ancora, fino all’Ottocento inoltrato, avrebbe lasciato in noi un segno profondo in termini di abitudini linguistiche, culturali, architettoniche, alimentari, persino giuridiche. Tra il XV e il XIX secolo i ticinesi sono diventati svizzeri ma non sono mai diventati “urani”, c’è poco da fare, anche se spesso ce ne dimentichiamo. Arbedo e Giornico, e con loro tutti gli scontri che hanno contribuito a definire ciò che noi siamo, meritano quindi tutta la nostra attenzione a patto però di non leggerli con le lenti miopi del discorso nazionalista, ad uso e consumo di un unico fronte che non esiste più (e che forse non è mai esistito).

La battaglia di Arbedo nella rappresentazione della “Cronaca di Lucerna” (1513) – Clicca per ingrandire






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