Il neoliberismo è morto? No, mai stato meglio!

Il neoliberismo è morto? No, mai stato meglio!

E noi, alla ricerca di emancipazione e democrazia, stiamo come criceti nella ruota dell’economia capitalista


Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Il neoliberismo è morto? No, mai stato...

Javier Milei – economista anarco-capitalista, ultra-liberista e populisticamente anti-casta – ha sbancato alle primarie di domenica in Argentina, superando il 30% delle preferenze in vista delle presidenziali di ottobre. 

Il suo programma è inquietante in sé, ma pare abbia raccolto l’entusiasmo soprattutto dei giovani argentini (rendendo tutto ancora più inquietante): liberalizzare il mercato di organi, abolire la Banca centrale, abolire il welfare, adottare il dollaro come moneta nazionale; e poi ancora: privatizzazione di sanità ed educazione, soppressione dei ministeri di Cultura, Ambiente, Donne e diversità, Lavori Pubblici, Educazione, Lavoro e sicurezza sociale, Trasporti, Salute, Scienze e Tecnologia, Sviluppo sociale, con un contorno – che non guasta mai, per rafforzare il populismo – di lotta contro l’ideologia di genere. 

È un mix di proposte letale per socialità, democrazia e libertà individuale, paradossale in una Argentina in cui il cupio dissolvi sembra diventato compulsivo – e certo, in campagna elettorale se ne dicono e se ne fanno di tutti i colori, vedi Meloni e Salvini in Italia, Trump negli Usa o Lega e Udc in Svizzera, però… Già, perché populismo & neoliberalismo sono oggi un’accoppiata che piace alla gente. 

Dunque, prima riflessione: non è vero che il neoliberismo è morto, che lo Stato sta tornando a svolgere un ruolo di governo dell’economia – se lo fa è sempre e ancora al servizio del capitale e del mercato, vedi caso UBS/CS, vedi l’inazione di fatto davanti alla crisi climatica. In realtà, il neoliberismo è sempre più anarco-capitalismo: “noi anarco-capitalisti crediamo che il capitalismo sia la piena espressione dell’anarchismo e che l’anarchismo sia la piena espressione del capitalismo”, scriveva il filosofo Murray Rothbard, però confondendo anarchismo con assenza di regole, di moralità, di responsabilità. 

Il neoliberismo non è mai stato così bene, colonizza sempre nuovi mercati e la vita intera dell’uomo e delle società posto che la sua ideologia aveva appunto l’obiettivo dichiarato di fare mercato anche dell’anima della gente, secondo la definizione della ultraconservatrice e ultraneoliberista Margaret Thatcher negli anni ’70 del ‘900: “Economics are the method. The object is to change the soul”. Appunto l’anima della gente; che ha infatti felicemente venduto la sua anima e la sua libertà al mercato e alla concorrenza e all’ideologa neoliberista in cambio di una illusione di libertà individuale.  Ancora Margaret Thatcher: “La società [cioè il noi, la solidarietà, la cura, la responsabilità e l’uguaglianza] non esiste, esistono solo gli individui – e al più la famiglia”. Producendosi conseguentemente non più libertà, ma il totalitarismo del capitale e del mercato. Ed è quindi tempo di ricominciare a usare questa parola, perché totalitarismo significa: “sistema tendente alla totalità”- e oggi la totalità è quella del mercato e del tecno-capitale; e in cui “tutti i poteri sono concentrati in un unico partito politico”, secondo la sua ideologia [ieri fascismo, nazismo, comunismo] e oggi secondo un pensiero unico neoliberale altrettanto ideologico, ma non politico, bensì economico. Neoliberalismo che quindi non muore – e per riformarlo radicalmente avremmo invece molte e urgenti ragioni, su tutte la crisi climatica – e come la mitica Fenice è capace di risorgere ogni volta dalle proprie ceneri. 

Di più – seconda riflessione: il neoliberalismo ha ucciso anche il liberalismo classico (no, non è un paradosso), che almeno formalmente era basato sulla distinzione tra società e mercato, sullo stato di diritto, sulla libertà individuale, sul diritto alla privacy e sul controllo reciproco dei poteri di uno Stato. Oggi la società si è fatta invece mercato e il tecno-capitale detta l’agenda allo Stato, compreso salvare se stesso anche quando la fa troppo grossa.

Terza riflessione o meglio urgenza: capire perché le sinistre – e torniamo su questo tema – si sono fatte anch’esse colonizzare dal neoliberalismo, convincendosi che non ci sono alternative al mercato e a una società basata solo sulla concorrenza, vendendo anche se stesse, cioè la loro anima politica e culturale, appunto al capitale e al mercato. E dimenticando ciò che invece scriveva un altro liberale, però intelligente, come l’economista John M. Keynes, cento anni fa: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non produce i beni davvero necessari”. Inoltre, spreca deliberatamente una quantità enorme di risorse nella lotta per la concorrenza. 

Per capire come le sinistre e la gente si sono fatte dunque colonizzare l’anima ci aiuta un libro di Wendy Brown, filosofa e politologa statunitense, dal titolo più che esplicito di Il disfacimento del demos, edito da Luiss UP. Sottotitolo: La rivoluzione silenziosa del neoliberismo. Un libro del 2015 – Undoing the Demos – ma attualissimo anche o soprattutto oggi. Libro non facile, ma che le sinistre dovrebbero leggere se vogliono provare a capire perché hanno deciso di arrendersi al nemico di classe (come si diceva una volta), rinunciando a immaginare e poi a costruire un altro mondo possibile, secondo principi di emancipazione.

Dissoluzione del demos. Perché se il mercato, secondo la pianificazione neoliberale, deve sostituirsi alla società e sovrapporsi allo Stato, se la competizione/concorrenza deve sostituirsi alla socialità, se trionfa l’anarco-capitalismo e il tecno-capitale è la totalità che non ammette dissenso, allora anche il demos – ciò che permette la demo-crazia, appunto il potere del demos, cioè dei cittadini – diventa inutile, un intralcio al mercato e al profitto. Quindi, anche il demos non deve più esistere, semmai solo la sua degradazione tecnocratica o populista; perché popolo non è demos, il popolo è passivo e la cittadinanza deve essere invece attiva e partecipativa – e non basta la moltiplicazione dei referendum e votare, come in Svizzera, se l’anima è già tutta neoliberale. 

Ovvero, scrive Wendy Brown, “il neoliberismo genera una condizione di politica privata delle istituzioni democratiche che sosterrebbero una cittadinanza democratica e di tutto ciò che essa rappresenta: una passione informata, un dibattito rispettoso, una sovranità ambiziosa, un deciso contenimento dei poteri che potrebbero indebolirla”. Invece, il successo di quella che Brown chiama razionalità neoliberista, riprendendo ma anche discutendo le tesi di Michel Foucault, “è indicato dall’assenza di reazioni scandalizzate. L’economizzazione di ogni cosa e di ogni sfera sociale e umana, compresa la politica – sostenendo il capitale e facendo retrocedere la giustizia e il benessere dei cittadini – ci rende cioè insensibili alla netta contraddizione tra una presunta economia di mercato e uno Stato sotto il suo controllo e a suo completo servizio. Perché lo Stato stesso viene privatizzato, avvolto e animato dalla razionalità di mercato in tutte le sue funzioni” – con in più il “potere crescente delle grandi corporation di plasmare leggi e decisioni per i propri scopi”. Tutti credendo che “il mercato sia vero in sé”. 

E certamente ciò è stato facilitato da una rivoluzione semantica (ogni totalitarismo deve infatti produrre la sua neolingua), introducendo termini come capitale umano al posto di persone; impresa invece di Stato; governance e devolution e management invece di government; buone pratiche e benchmarking come tecniche di omologazione e di standardizzazione invece di creatività e intelligenza; competenze tecniche invece di conoscenza umanistica. Tutto per sostituire l’homo politicus della democrazia con l’homo oeconomicus del neoliber(al)ismo, dove i cittadini sono ridotti a meri fattori della produzione, del consumo e della finanziarizzazione del mondo, organizzati, comandati e sorvegliati dal tecno-capitale ma convinti davvero che capitalismo e democrazia siano la stessa cosa, così però allontanandoci sempre più dalla democrazia. E da qui, inevitabili, ecco i populismi/sovranismi con cui il neoliberalismo si traveste e si offre oggi al popolo come merce anti-politica per continuare a fare ciò che unicamente gli interessa fare: il profitto. Trasformando il mondo – e noi – nel suo mondo.  

Sempre di più. Perché la soluzione neoliberista ai problemi che esso stesso crea è sempre più mercato, più finanziarizzazione, più tecnologie, più nuovi modi per estrarre profitto. “Tutto fuorché la pianificazione responsabile del futuro, tutto fuorché una costruzione deliberata e consapevole dell’esistenza attraverso il dibattito democratico e una linea politica”; tutto, continua Wendy Brown, “fuorché la giustizia”. Il tecno-capitale ci ha ridotti quindi – vecchia metafora, sempre vera – a criceti dentro la gabbia di una economia capitalista “che non può fermarsi senza crollare”, obbligandoci a correre sempre più velocemente nella ruota dentro alla gabbia. Noi illusi di essere liberi dentro a una gabbia: qualcosa di davvero surreale. 

Un libro importante, dunque, quello di Wendy Brown. Ancora più importante però se oltre al neoliberalismo avesse affrontato anche il problema della tecnica, perché il disfacimento del demos è un effetto sì della razionalità neoliberale, ma anche o soprattutto della razionalità tecnica. Ma quello di Wendy Brown è comunque un ottimo inizio.

Nell’immagine: l’AI lo vede così (neural.love)

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