Resilienza? No, grazie!

Resilienza? No, grazie!

Con un termine accattivante, il sistema neoliberale ci induce ad adattarci individualmente, ancora una volta, alla logica perversa della crescita a tutti i costi: guai a ribellarsi


Lelio Demichelis
Lelio Demichelis
Resilienza? No, grazie!

Bologna come Venezia, con l’acqua alta. L’Emilia-Romagna allagata, con morti e feriti e danni immensi. È l’ultimo evento climatico drammatico offerto dalla cronaca, effetto della crisi ambientale acceleratasi negli ultimi decenni ma antica quanto la rivoluzione industriale e di quello che chiamiamo tecno-capitalismo, irresponsabile ambientalmente e socialmente per sua essenza, tendenza e vocazione essendo finalizzato alla crescita quantitativa illimitata (produrre e far consumare sempre di più, a questo servono il management e il marketing, rimuovendo ogni concetto di limite), e non certo allo sviluppo qualitativo e sostenibile (troppo lento nel produrre profitto), sfruttando quanto più è possibile la terra e le società e l’uomo.

Dovrebbe essere infatti evidente a tutti che la causa prima della crisi climatica è il capitalismo con la sua irrazionalità strumentale / calcolante-industriale. Strumentale – cioè finalizzata – alla massimizzazione del profitto privato; calcolante perché si basa sulla matematizzazione della vita e su un mero rapporto tra costi e benefici, facendoci credere che l’efficienza così ottenibile sia sempre esatta (oggi gli algoritmi e l’intelligenza artificiale e la digitalizzazione del mondo) e quindi anche buona e giusta e razionale; industriale perché tutta la nostra vita è industrializzata, cioè organizzata, comandata e sorvegliata dal sistema secondo il modello dell’industria (dalla produzione al consumo, dalla scuola alla cultura, dall’informazione all’intrattenimento), perché noi si produca e si consumi appunto sempre di più. 

Ma questa razionalità tecno-capitalista è invece del tutto irrazionale in termini sociali e ambientalidovrebbe essere evidente – appunto avendo prodotto la crisi ambientale che era presente già negli anni Settanta (e qualcuno ricorderà il Rapporto del MIT al Club di Roma intitolato I limiti della crescita) e oggi climatica, per un evidente rapporto/relazione di causa ed effetto, che nasce appunto con l’inizio della rivoluzione industriale ma che esplode con i consumi di massa del Novecento. 

Questa irrazionalità è dimostrata da pochi e semplici dati: nel mondo vi erano, nel 1937, 2,3 miliardi di persone, con la CO2 nell’atmosfera a 280 parti per milione e gli spazi di natura incontaminata erano il 66% del totale; nel 1997 la popolazione mondiale era salita a 5,9 miliardi di persone, con la CO2 arrivata a 360 parti per milione e la natura incontaminata scesa al 46%; mentre  nel 2022 la popolazione mondiale è arrivata a 8 miliardi di persone, la CO2 nell’atmosfera è aumentata ancora a 415 parti per milione e la natura incontaminata si era ridotta ulteriormente al 35%. 

Serve aggiungere altro? No, se non ricordare che dopo gli allarmi ambientali degli anni Settanta il sistema tecno-capitalista è stato abilissimo a farci dimenticare ecologia, limite, responsabilità verso le future generazioni e socialità (uguaglianza e fraternità), prima con l’edonismo consumistico e le televisioni commerciali degli anni Ottanta, poi con le tecnologie di rete che promettevano, negli anni Novanta, una nuova era di crescita infinita, il tutto condito con l’individualismo egoistico del neoliberalismo.

Ad accompagnare i disastri in Emilia-Romagna è arrivato anche l’avvertimento lanciato dall’Organizzazione meteorologica mondiale (Wmo), che fa parte dell’Onu. Le cui proiezioni scientifiche ci dicono – con una probabilità del 66% – che le temperature globali arriveranno a superare di 1,5 gradi i livelli pre-industriali  (e 1,5 gradi era il limite da non superare indicato dagli Accordi sul clima di Parigi del 2015) in almeno un anno dei prossimi cinque. Il Wmo prevede infatti che la temperatura globale media per ciascun anno fra il 2023 e il 2027 sarà fra 1,1 e 1,8 gradi sopra i valori medi del periodo 1850-1900. Ovvero il riscaldamento climatico sta accelerando.

E allora, cosa ha inventato il sistema per garantirsi la propria riproducibilità, per non mettersi davvero in discussione? La resilienza. Che è nei fatti la stessa cosa di adattamento, ma ha un suono molto più accattivante, quasi soffice e soprattutto – sempre nella logica socialmente e ambientalmente devastatrice del neoliberalismo – individualista, perché vuole attivare l’individuo ad essere psicologicamente resiliente ma individualmente, evitando ogni pericolosa (per il sistema) resistenza e ogni azione collettiva. Spingerci alla resilienza significa allora che dobbiamo accettare il cambiamento climatico come un dato di fatto, che si può forse attenuare ma certamente non rovesciare, perché farlo significherebbe rivoluzionare o almeno riformare profondamente il sistema che lo produce. 

La parola resilienza – e l’insistere su di essa, ormai la troviamo ovunque, come la pubblicità – è cioè funzionale non alla soluzione della crisi climatica e ambientale e sociale – ipotesi del tutto aliena dal tecno-capitalismo e dalla razionalità strumentale / calcolante-industriale – non a una vera transizione ecologica (dove persino il nucleare viene proposto come green), ma a permettere un nuovo, ennesimo resettaggio trasformistico del capitalismo. O, detto diversamente e riprendendo il pensiero del tedesco Wolfgang Streeck, a far guadagnare altro tempo al tecno-capitalismo, spostando in avanti la resa dei conti (o nascondendola) con la crisi climatica. E guadagnare tempo – che per Streeck “è la traduzione dell’espressione buying time – e significa rinviare un certo evento imminente nel tentativo di evitarlo”. 

E ancora di resilienza ci parla Sarantis Thanopulos, Presidente della Società psicoanalitica italiana: “Si vive al presente continuo, di conseguenza il futuro (le sue minacce e le sue potenzialità) non esiste, dal passato non si apprende niente e il lutto (il travaglio connesso alla trasformazione) è una parola brutta. La maggioranza degli umani vive allo stato dell’indifferenza, giorno per giorno. La domanda che più rapidamente si diffonde, e determina ormai il mercato, è quella dei dispositivi di eccitazione e scarica; la creazione di una neo-realtà che aiuti a dimenticare la realtà vera, a fuggire in un mondo di fantasia pura, necessariamente autistico, autoerotico. Ciechi come talpe ci scaviamo la fossa. Questo è il mondo della resilienza”.    

Resilienza – per il tecno-capitalismo – è appunto sinonimo di adattamento. E come scriveva ormai quasi cento anni fa il neoliberale Walter Lippmann, il neoliberalismo è l’unica filosofia “che possa condurre all’adeguamento della società umana alla mutazione industriale e commerciale fondata sulla divisione del lavoro”; che a sua volta è un dato storico [un dato di fatto, da accettare, come oggi il riscaldamento climatico] che non può essere modificato; compito del neoliberalismo è modificare l’uomo, adattandolo alle esigenze della produzione e di un capitalismo che deve diventare “un nuovo sistema di vita per l’intera umanità”; ovvero l’ambiente sociale e il sistema capitalistico devono sempre tendere a formare tra loro un tutto armonico: questa è appunto la pianificazione tecno-capitalista della nostra way of life, al cui confronto i piani quinquennali sovietici erano davvero poca cosa. 

E invece di ribellarci ci facciamo oggi resilienti, cioè ci adattiamo ancora una volta alle esigenze del capitale (e del tecno-capitale). Dovremmo indignarci e ribellarci contro la causa che determina la crisi climatica e invece gli elettorati del mondo, Svizzera compresa, votano sempre più per quelle destre populiste, sovraniste e negazioniste e comunque neoliberali/capitaliste che sono la continuazione del capitalismo con altre forme e altri mezzi politici. Mentre le sinistre sono ormai del tutto incapaci di vedere le leggi di tendenza del capitale e di fare quindi un ragionamento critico e poi una proposta anti-capitalista. Tutti ciechi come talpe, appunto.

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