La grande fuga dei capitalisti digitali
La corsa sfrenata alla digitalizzazione sta trasformandoci in vittime del capitalismo della sorveglianza, quello alimentato da super-ricchi che stanno preparandosi a fuggire. Anche su Marte, se necessario
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La corsa sfrenata alla digitalizzazione sta trasformandoci in vittime del capitalismo della sorveglianza, quello alimentato da super-ricchi che stanno preparandosi a fuggire. Anche su Marte, se necessario
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La corsa sfrenata alla digitalizzazione sta trasformandoci in vittime del capitalismo della sorveglianza, quello alimentato da super-ricchi che stanno preparandosi a fuggire. Anche su Marte, se necessario
L’inizio è degno di un romanzo, ma è tutto vero (ahinoi): “Mi avevano offerto di tenere un discorso in un resort extra lusso. Pensavo che il pubblico sarebbe stato composto da un centinaio di banchieri d‘investimento. […] In genere al pubblico non interessa sapere quale impatto avranno le nuove tecnologie sulla società, ma solo se vale la pena o no investirci del denaro. […] All’aeroporto mi aspettava una limousine che mi ha portato subito nel bel mezzo del deserto. Nel luogo più lussuoso e isolato che avessi mai visto. […] La mattina seguente mi hanno portato in una sala conferenze, ma non mi hanno sistemato il microfono né accompagnato sul palco, sono stati i miei uditori a venire da me. Cinque tipi ricchissimi, tutti uomini, appartenenti alla più alta élite nel campo degli investimenti tecnologici e dei fondi speculativi. Almeno due erano miliardari”.
Dopo qualche domanda per sondare il terreno, eccoli arrivare al punto: Nuova Zelanda o Alaska, oppure Marte? Cioè come salvarsi, ma solo loro, da quello che chiamavano l’Evento, “il loro eufemismo per dire il collasso ambientale, le rivolte nelle strade, un’esplosione nucleare… l’hack informatico in grado di bloccare ogni cosa”. Erano probabilmente “le persone più ricche e potenti che avessi mai incontrato eppure stavano chiedendo a un massmediologo marxista come allestire il loro bunker per l’apocalisse”. Come cioè salvarsi, loro, dal disastro che essi stessi stanno provocando pur di massimizzare i loro profitti: “per loro, il futuro della tecnologia riguarda una cosa sola, fuggire da tutti noi”, lasciando noi nelle pesti.
Eppure – e qui inizia l’analisi e la riflessione di Rushkoff sul capitalismo digitale – un tempo, ma neppure troppo tempo fa, questi tecno-ricchi “bombardavano il mondo di business plan ottimisti, spiegando come la tecnologia avrebbe fatto il bene dell’umanità”, promettendo un’era meravigliosa di crescita economica infinita e illimitata. Con quella tecnologia digitale che “era anche un campo della contro-cultura” psichedelica, anticapitalista o tecno-anarchica, che la pensava come “un’opportunità per ideare un futuro più inclusivo, equo e partecipativo. […] Molti di noi” – continua Rushkoff – “credevano che – connessi e coordinati come non mai – gli esseri umani avrebbero potuto creare qualunque futuro potessero immaginare”. E invece siamo arrivati a quella forma tecnologica di totalitarismo che noi chiamiamo digitalizzazione delle masse, con una società totalmente amministrata, automatizzata e integrata attraverso le macchine e il calcolo matematico, cioè in un capitalismo digitale che – scrive Rushkoff – ha come obiettivo “il dominio”.
E “quando la rivista Wired, nata nel 1993, cominciò a parlare di internet come di un’occasione per fare soldi, le persone ricche iniziarono a interessarsene”. E allora, “altro che controcultura psichedelica, avventure ipertestuali e consapevolezza collettiva. La rivoluzione digitale non era certo una rivoluzione, ma un’altra occasione per fare affari”, secondo la legge del profitto capitalistico. E infatti gli articoli su internet “si spostarono dalle pagine culturali dei quotidiani a quelle di economia e finanza” e gli utenti tecnologici “non vennero più considerati come creatori da incentivare, ma come consumatori da manipolare. Più il loro comportamento era prevedibile, più semplice sarebbe stato influenzarlo”.
E “come ha spiegato a fondo Shoshana Zuboff nel suo libro Il capitalismo della sorveglianza, invece di continuare a fornire risultati di ricerca ai propri utenti, Google si dedicò sempre più a un business ancor più remunerativo: fornire i dati degli utenti ai suoi veri clienti, i ricercatori di mercato desiderosi di profilare gli utenti e manipolare il loro comportamento”; e analogamente fece Zuckerberg con Facebook, ovvero, “invece di aiutare gli utenti [e amicizia e comunità furono le sue parole-chiave], l’azienda li ha danneggiati per arricchire i propri investitori”. E quindi, noi siamo diventati la “loro forza-lavoro”, come scrive Rushkoff e come sosteniamo da tempo anche noi. E così “il futuro smise di essere qualcosa che creiamo per il bene dell’umanità e diventò uno scenario prestabilito e sul quale scommettere il nostro venture capital”. Dare l’allarme, fare pensiero critico significava invece “porsi come un nemico del mercato o un invasato anti-tecnologico”, cosa che il sistema – e il conformismo che produce – assolutamente non tollera perché ostacola la sua compulsione patologica per il profitto e per la crescita quantitativa.
E così, ciechi come talpe abbiamo creduto che il nuovo stesse davvero avanzando e che non si dovesse e potesse fermare (siamo nella quarta rivoluzione industriale, dicono gli intellettuali organici del tecno-capitale, siamo a un cambio di paradigma), e invece “le piattaforme digitali hanno solo trasformato un mercato che era già all’insegna dello sfruttamento e dell’estrazione di valore (da americani pensiamo a Walmart) in qualcosa di ancora più disumano (Amazon)” – e ci fa piacere che Rushkoff concordi anche qui con la tesi che sosteniamo da quasi vent’anni, cioè che il nuovo apparente è solo il vecchio capitalismo, che la rete è la nuova catena di montaggio, anche se appunto digitale ma peggiore della vecchia grazie al digitale. Un capitalismo digitale “imbizzarrito”, “segnato dall’ortodossia tecno-soluzionista” (il problem solving da attivare ogni volta, caso per caso, invece di rimuovere a monte la causa del problema), che avrà allora il suo culmine “nell’upload della nostra coscienza in un computer o ancora meglio quando accetteremo che è la tecnologia il passo successivo della nostra evoluzione” – o forse: involuzione – noi delegando tutto alle macchine e agli algoritmi/i.a. (conoscenza, decisione, organizzazione della vita e del lavoro…). Cui si aggiunge l’impatto devastante del capitalismo anche digitale sull’ambiente, sui poveri del mondo, sulla estrazione e sfruttamento dei metalli rari e il fatto che “la fabbricazione dei nostri computer e smartphone dipende ancora da una rete di lavoratori schiavizzati”.
Le pagine di Rushkoff sono molto altro e ci portano a riflettere di scientismo irrazionale e di illuminismo, di disuguaglianze crescenti, di capitalismo ossessionato dalla crescita e che per questo (la chiama efficientizzazione) “scompone tutto in parti, invece di mettere l’accento sui collegamenti e le interazioni fra le varie componenti”, un capitalismo “incapace di fare un passo indietro” (e per il quale siamo solo “soggetti da contare, sorvegliare, data-analizzare e manipolare”) – Rushkoff portandoci infine alla necessità e urgenza di pensare a un modello di economia circolare. E invece, “il desiderio di fuga della Silicon Valley – chiamiamolo Mindset – spinge chi lo condivide a credere che i vincenti del capitalismo digitale possano lasciarsi alle spalle tutti gli altri […] e preferisce immaginare un futuro dove sarà costretto a isolarsi dalle persone che ha sfruttato. Forse è quel che volevano fin dall’inizio”.
In realtà, scrive Rushkoff, “imprese e tecnologia digitale non avrebbero potuto fare tanti danni da sole”. Hanno avuto la nostra complicità (il nostro feticismo per la tecnologia) e quella dei governi. E allora, forse – per salvare noi stessi e la Terra – è tempo di diventare noi degli anti-capitalisti digitali. Insomma: aprire gli occhi e gridare che il re è nudo! Perché, lo ricorda Rushkoff, “l’unico modo che abbiamo per evitare la catastrofe è iniziare a lavorare perché non avvenga”.
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