Abusi istituzionalizzati

Abusi istituzionalizzati

Dopo l’inchiesta di Falò: silenzio e negazione delle proprie responsabilità tra chi affiancava il funzionario del DSS a Bellinzona


Simona Sala
Simona Sala
Abusi istituzionalizzati

Sarebbe già sufficientemente grave se fosse successo in una fabbrica, in un ufficio qualsiasi, in un supermercato. Il capo che abusa della stagiaire o della giovane impiegata, dell’ultima arrivata, di quella che non ha ancora agganci, ma soprattutto che ha bisogno di lavorare perché a fine mese le bollette vanno pagate, per quanto rivoltante, rappresenta un triste classico. Da che mondo e mondo. E chi è donna ben lo sa.

Sarebbe già grave a sufficienza, dicevamo. E disgustoso, rivoltante, nauseante. Ma soprattutto ingiusto, perché è da codardi, incuneare il potere laddove non si avverte resistenza, così come è vigliacco lavarsi la coscienza e perseguire la politica della negazione anche quando confrontati con evidenze e dati di fatto.
Eppure, poiché non c’è un limite al peggio – e anche questo è un dato di fatto – un capo che abusa in un luogo protetto, tra e con persone che, come lui lavorano al servizio delle fasce più vulnerabili della società, bambini, giovani, famiglie, commette un reato supplementare.

La complessa puntata di Falò andata in onda su La1 della RSI giovedì ha dimostrato, attraverso una ricostruzione minuziosa di aneddoti tra di loro collegati, risalenti a un tempo anche lontano, come sia stato scandalosamente facile, per il funzionario del DSS condannato per molestie sessuali e stupro, ma protetto dalla prescrizione, muoversi tra le maglie della mancanza di controllo. Segnalazioni e anomalie, a quanto riferito dalle coraggiosissime testimoni, venivano accolte e liquidate con una noncurante scrollata di spalle (“le conforto”, annotava uno dei capi ufficio dopo la visita di alcune ragazze che segnalavano le molestie), mentre la predilezione per le ragazzine da parte del funzionario in questione, da colleghe e colleghi veniva registrata con un benevolo sorriso, quasi alla stregua di una birichinata.

Ora che le cose sono state raccontate in dettaglio, e che la portata dell’incubo è stata ricostruita con frasi forti e amare lacrime (perché, non si è intervenuti prima, alla luce di tutte le segnalazioni, si chiedono le vittime?), a lasciare increduli, ancor più del fatto che la prescrizione abbia annullato la detenzione ma non il salario del reo non confesso, è il silenzio, letteralmente assordante. Il silenzio di chi potrebbe, avrebbe modo di ammettere, se non una colpa, almeno un errore, se non un reato, almeno la mancanza di un ascolto reale delle vittime. Di chi dovrebbe, finalmente, avere compreso come, in uno stato equo, una vittima di reati sessuali non dovrebbe prodigarsi nel tentativo di dimostrare il torto subito più di quanto l’imputato non investa nella propria difesa (basti pensare alla giovane collassata in bagno per sfuggire alle molestie, e non presa sul serio perché definita “problematica”). Ma così evidentemente non è, come ha provato la scandalosa sentenza pronunciata proprio ieri da un giudice di Olten, che riguardo allo stupro ai danni di una diciassettenne, alla fine del processo appena celebrato, ha dichiarato come si sia trattato “di uno stupro relativamente blando, se così si può dire”.

No, così non si può dire, caro giudice, come hanno ribadito a gran voce media, collettivi e associazioni d’Oltralpe. Così come non esistono vari gradi di stupro e vari gradi di sofferenza. Così come, per alleggerire il macigno del dolore delle vittime, non bastano gli anni che passano o gli “io non c’entro” che si sono levati un po’ ovunque tra i tragici protagonisti della vicenda ticinese.

Anche chiedere scusa non basterebbe e non risolverebbe nulla, però potrebbe almeno lenire (ed è forse stato il rispettoso pensiero del giudice Villa al momento della lettura della prima sentenza).
Ma forse le vittime del funzionario non meritano nemmeno questo.

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