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• 4 Novembre 2022 – Gianni Beretta
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La Città di Lugano e il governo di El Salvador hanno sottoscritto a sorpresa la scorsa settimana un memorandum di collaborazione per la promozione delle criptovalute Bitcoin, Tether e Lvga (quest’ultima moneta digitale luganese il cui corso è stato legalizzato nel marzo scorso) come alternativa internazionale ai metodi di pagamento in contante, con bonifici e carte di credito.

Ma l’ambasciatrice salvadoregna negli Stati Uniti, Milena Mayorga, insieme a Joaquín Alexander Maza (ambasciatore di El Salvador presso l’Ufficio delle Nazioni Unite a Ginevra) prima di ratificare quell’intesa hanno riferito (se ce ne fosse stato bisogno) dell’andamento del Bitcoin in El Salvador, primo paese al mondo nel settembre 2021 a formalizzare la circolazione della criptomoneta?

Ebbene l’azzardato esperimento del Bitcoin nella minuscola e poverissima nazione dell’istmo centroamericano non è che abbia dato (fino ad ora) il meglio di sé.

Ad avventurarsi nell’impresa il giovane Nayib Bukele, primo presidente millennial dell’America Latina. Ma la criptomoneta, che due mesi dopo il suo lancio locale aveva raggiunto il massimo storico a 69mila dollari, nel corso di quest’anno è precipitata progressivamente finanche sotto i 20mila. Con Bukele che al momento avrebbe dissipato circa il 60% del valore dei 2.381 Bitcoin in denaro pubblico via via da allora investito a quotazioni diverse, anche dopo che era iniziata la discesa. “Non preoccupatevi”, twittava ancora poco tempo fa un rassicurante e baldanzoso Nayib: “entro la fine del 2022 il Bitcoin raggiungerà i centomila dollari”.

Sta di fatto che ad oggi lo stato salvadoregno è in perdita per oltre 60 milioni di dollari dei 105 investiti nell’operazione. Non solo: altri 150 milioni sono stati collocati in un relativo deposito di garanzia; mentre ulteriori 120 milioni sono serviti per allestire la piattaforma digitale Wallet Chivo, cui avevano aderito da subito i due terzi dei 6,5 milioni di abitanti del paese più piccolo quanto più densamente popolato del subcontinente latinoamericano. Che in realtà vi si erano associati per beneficiare dei 30 dollari d’iscrizione promozionale; salvo poi abbandonare immediatamente il sistema e continuare le transazioni col dollaro statunitense (assurto a sua volta a moneta nazionale nel 2001, per iniziativa della destra oligarchica, soppiantando l’autoctono colón).

Così che a malapena un 10% del totale dei pagamenti in El Salvador viene effettuato oggi in Bitcoin (che i commercianti sono obbligati a ricevere) in uno staterello dove l’economia informale sfiora il 70%. Mentre meno del 2% delle rimesse familiari inviate dagli oltre due milioni di emigrati salvadoregni sono state trasferite in patria in valuta virtuale. Conversione sulla quale il presidente aveva puntato molto trattandosi di ben 7,5 miliardi di dollari ogni anno (oltre un quinto del pil). Neanche il tanto sbandierato incentivo per un risparmio complessivo di 400 milioni delle relative commissioni li ha però convinti a dirottarle sulla moneta digitale.

Ma come è venuta all’oggi quarantenne Nayib Bukele, al di là dell’attuale pessima perfomance, l’idea di avventurarsi in un simile azzardo impegnando risorse pubbliche in un investimento puramente speculativo, ad altissima volatilità, oltre che privo di ogni trasparenza?

Bukele, di una famiglia di imprenditori originaria della Palestina (ed egli stesso impresario) è stato eletto alle presidenziali del 2019 sbaragliando letteralmente il sistema a due partiti che reggeva dalla fine del sanguinoso conflitto civile grazie agli accordi di pace del 1992 propiziati dall’Onu. All’indomani dell’avvento dei sandinisti in Nicaragua, la guerriglia del Frente Farabundo Martí para la Liberación Nacional (Fmln) aveva tentato di rovesciare anche in El Salvador il repressivo sistema oligarchico. Dopo dodici anni e 75mila vittime, finì militarmente pari e patta, ma con un successo politico-diplomatico evidente da parte degli insorti, instaurandosi così una dinamica politica ed elettorale accettabilmente democratica e senza registrare da allora alcun assassinio politico.

Quella che non venne affrontata fu invece la questione chiave della revisione della proprietà delle terre, che pure era stata timidamente prevista da quegli accordi, in un paese in larga misura ancora prigioniero dell’atavico schema coloniale “oligarquia versus peones”. Neppure l’avvento al governo dell’ex guerriglia negli ultimi due mandati prima di Bukele, fra il 2009 e il 2019 (dopo i tre consecutivi della destra), poté scalfire più di tanto le brecce sociali, con il Fronte che, non avendo la maggioranza nell’assemblea legislativa, non poteva far passare le proprie riforme, sistematicamente boicottate dal partito Arena. Col risultato di non riuscire ad arginare la massiccia emigrazione verso il nord e neppure il fenomeno della violenza delle pandillas (bande giovanili), tanto da proiettare El Salvador (nel 2015) fra i pochi paesi al mondo con oltre cento omicidi ogni centomila abitanti l’anno.

È in questo contesto di frustrazione generale che prende il largo la figura di Najib Bukele, il quale, paradosso vuole, proviene dalle stesse fila del Fmln che lo aveva proiettato a sindaco di San Salvador. Nayib si è ben presto mostrato piuttosto riottoso verso le dinamiche di una sinistra ex guerrigliera non scevra da rigidità, divisioni e settarismi. Tanto che il Fronte decise precipitosamente di espellerlo dal partito mentre era ancora alla guida della capitale.

Di lì la decisa svolta del twittero Bukele che, contando su un’ampia simpatia della maggioritaria giovane quanto disperata popolazione salvadoregna, fonda il partito Nuevas Ideas e, scagliandosi (come accaduto ad altre latitudini) contro il tradizionale e paralizzante sistema bipartitico (da lui definito “l’era della corruzione”), si impone già al primo turno nelle presidenziali del 2019. Per stravincere poi le elezioni parlamentari (e municipali) del febbraio 2021 ottenendo la maggioranza assoluta dei due terzi.

In un crescente delirio di potere personale e guadagnatosi pure il favore di esercito e polizia, nel maggio successivo impone con un golpe istituzionale la sostituzione della corte suprema con una a propria immagine e somiglianza, subordinando di fatto a sé anche il controllo del potere giudiziario. Fino ad annunciare che nel 2024 si ricandiderà alla guida del paese nonostante la costituzione disponga la non rieleggibilità oltre che l’immodificabilità del relativo articolo.

Il tutto alla guida di un paese economicamente e finanziariamente sconquassato, cui va aggiunto (a differenza che con Trump) il pessimo rapporto con l’amministrazione Biden per aver strizzato l’occhio all’avvio di interscambi con la Cina.

Su questo sfondo Nayib decide di giocare la carta del Bitcoin quasi fosse la scorciatoia per “salvare” El Salvador. Strategia che non si limita alla già di per sé spregiudicata legalizzazione della criptomoneta, bensì su un progetto integrale che prevederebbe la fondazione sulla costa del Pacifico di Bitcoin City, interamente alimentata dall’energia geotermica dei vulcani Tecapa e Conchagua (con un immenso consumo di energia viste le temperature del tropico). Sta di fatto che il presidente così si rivolse planetariamente: “accorrete minatori, che diventeremo il laboratorio mondiale delle criptomonete”. Per finire con l’annuncio della fondazione della Bitcoin Beach del surf, “dove tutto si pagherà in digital money”.

Da allora in El Salvador sono stati ricevuti principescamente almeno una mezza dozzina di multimilionari del businnes virtuale, a partire dal proprietario del gruppo Tv Azteca messicana, Ricardo Salinas, e il CEO di Binance, Changpeng Zao; e ancora il giornalista statunitense Max Keiser (ex collaboratore di una tv russa filo Putin) la cui consorte, Stacy Herbert, pronosticò che “El Salvador diventerà la Firenze del Rinascimento 2.0”.

Peccato che la moneta digitale abbia cominciato a cedere. Tanto che l’emissione sul mercato finanziario di Bitcoin Bond per un miliardo di dollari (per finanziare Bitcoin City) annunciata già per la fine del marzo scorso è stata posposta sine die dal ministro dell’economia Alejandro Zelaya. Al quale non è restato che minimizzare le perdite dell’operazione, incalzato dal Fondo Monetario Internazionale che minaccia di sospendere i negoziati per un prestito di 1,3 miliardi di dollari (in vista della scadenza nel gennaio prossimo di un credito di 800 milioni) nel caso El Salvador persista nell’impiego della criptomoneta che “mette a rischio la stabilità e integrità finanziaria dello stato”, oltre che “la protezione del consumatore”.

A rincarare la dose le agenzie Moody’s e Fitch che per il timore d’insolvenza hanno declassato il debito del Salvador da B- a CCC; ovvero a spazzatura. Nonché le aspre critiche apparse sull’Economist, il Financial Times e, più recentemente, sul New York Times. Cui Bukele ha sempre reagito con twitters piccati senza mai fare marcia indietro e sorprendendosi ironicamente per tanto “repentino interesse” verso l’”insignificante” nazione centroamericana.

Non è comunque un caso che l’incontro del maggio scorso dei banchieri centrali di 44 paesi emergenti, convocato ad hoc a San Salvador dal presidente salvadoregno all’insegna della (decadente) moneta digitale, si sia svolto in un clima alquanto mesto. Mentre dei tanto auspicati investimenti dall’estero non se ne è vista neppure l’ombra.

A complicare ulteriormente il panorama si è consumato a fine marzo scorso il più violento week end nella storia del Salvador in tempo di pace con 87 omicidi ad opera delle maras, le bande giovanili che da oltre un paio di decenni imperversano soprattutto nelle periferie di San Salvador, controllando ampli territori mediante estorsioni, microcriminalità e spaccio di stupefacenti.

Preoccupato sia all’interno che per l’immagine di insicurezza che il paese avrebbe dato fuori dai suoi confini, Bukele ha subito disposto lo stato di eccezione nazionale, tuttora vigente, con la sospensione di una serie di garanzie costituzionali.

Nate a Los Angeles, le pandillas sono state trapiantate nell’istmo dai figli degli emigranti deportati a fine pena dalle carceri della California. E si sono rapidamente diffuse (anche in Guatemala e Honduras) per le condizioni di estrema miseria e all’indomani di devastanti conflitti che avevano lasciato grandi quantità di armi da fuoco in circolazione.

I governi che si sono succeduti in El Salvador, di destra come di sinistra, hanno alternato invano periodi di feroce repressione a tregue temporanee, durante le quali i pandilleros sono lievitati fino a 70mila. Ma con l’insediamento di Bukele l’indice dei morti ammazzati per centomila abitanti diminuì drasticamente. Salvo scoprire, grazie alla giovane equipe di giornalisti indipendenti de El Faro, che quel risultato non era il frutto di un improvviso miglioramento delle condizioni di vita della gioventù salvadoregna, bensì di un fitto andirivieni fra le zone sotto il controllo delle maras e le carceri dove erano detenuti i loro capi. Con le autorità di governo ad attenuare la repressione (oltre che le loro condizioni di detenzione) in cambio di una minore belligeranza.

Poi qualche arresto di troppo ha fatto saltare quell’illusorio equilibrio. E le pandillas hanno reagito con una repentina impennata di omicidi, cui Bukele ha risposto da marzo con l’arresto di oltre 60mila giovani, il tasso di detenuti più alto del subcontinente. Fra essi 1.100 minorenni (compresi i dodicenni condannabili fino a dieci anni). Basta avere un tatuaggio o una spiata di un vicino per finire dietro le sbarre: ammassati 24 ore su 24 nelle celle senza poter vedere, ha disposto via social Bukele, “un solo raggio di sole”. Unanime è giunta la condanna, fra altre, della Commissione Interamericana per i Diritti Umani.

Il colmo è che nonostante la debacle del Bitcoin (cui quasi nessuno ha creduto in El Salvador) il sempre più autarchico Nayib Bukele continua a rimanere saldamente in testa nei consensi fra i capi di stato latinoamericani proprio per la sua mano dura adottata contro le maras, di cui la popolazione più sventurata è stata finora impunemente in balia. Lungi dal tentare di attenuare le ragioni strutturali delle disuguaglianze alla base della miseria di questo paese, dove l’oligarchia, le tasse, non sa neanche cosa siano.

Così che ora il suo governo è stato costretto a “cedere” alla ben più performante Lugano l’aspirazione a capitale mondiale delle criptovalute; solcando il Ceresio come su una sorta di ciambella di salvataggio in attesa di un loro recupero. Mentre le varie Banche Centrali in giro per il mondo, a cominciare da quella europea, dopo aver cercato di arginare i paradisi fiscali, si stanno interrogando ora se non sia il caso di mettere un freno alle monete digitali.

Nell’immagine: il faraonico progetto di Bitcoin City, in El Salvador






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