Bottegai, caritatevoli, marziani
I piccoli svizzeri alla ricerca del migliore atteggiamento di fronte alla grande Europa
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I piccoli svizzeri alla ricerca del migliore atteggiamento di fronte alla grande Europa
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I piccoli svizzeri alla ricerca del migliore atteggiamento di fronte alla grande Europa
L’atteggiamento da bottegai consiste nel calcolare che cosa si rischia di perdere nell’abbandonare il tavolo. E qui emergono subito un paio di stranezze.
La prima è che non si indaga, come parrebbe più logico, su ciò che si guadagna a buttare tutto a carte quarantotto. Nessuno, neppure un pensatoio federale, neppure un istituto universitario, ha fatto un calcolo per dirci, dove e che cosa ci guadagneremo. Viene il dubbio che non sia possibile o conveniente. A meno che si dia per scontato che l’unico profitto (ora così esaltato da Blocher e dall’Udc di Chiesa) sia quello da collocare sotto la parola che esaltiamo da alcuni anni : sovranità. Data ovviamente per sovranità “non perduta”. E allora è difficile calcolarne e a maggior ragione monetizzarne il guadagno. Sia perché sovranità è parola-valigia (che cosa ci mettiamo dentro, al netto? i “nostri” diritti popolari, la giustizia fatta in casa, le libertà per lo scampato capestro europeo?). Sia perché, per un minimo di coerenza più che di etica politica, sovranità non dovrebbe essere oggetto commerciabile e monetizzabile. Benché, ad essere sinceri, da buoni svizzeri pragmatici e calcolatori, la soppesiamo spesso per quel tanto che, rinunciandovi un poco, può rendere.
O siamo indotti, sempre per questioni di bottega, a commerciare. Quanta ne abbiamo venduta, ad esempio, non solo per affari economici, ma anche per convenienze politiche, senza che nessuno movesse paglia, agli Stati Uniti (per ricavarne affari e posizioni o per pagarne uscite miliardarie per le banche) oppure al sol nascente della Cina (per cercare di non perdere un mercato immenso e promuovere convenienze bancarie o industriali)? Dando poi ad ambedue largo spazio anche in casa nostra (v. ad esempio le regole bancarie o monetarie americane imposteci oppure lo scorrazzare imperiale dei fondi di investimento americani che condizionano industrie alimentari e farmaceutiche o quello delle multinazionali monopolizzanti che mettono in forse anche la nostra libertà di stampa oppure la cessione-fusione di industrie cosiddette strategiche; mettiamoci anche, per dovere di cronaca, anche il quasi obbligo di acquistare gli aerei statunitensi).
La seconda stranezza è che non si riesce a capire come, essendo tanto consci della propria forza e della propria indispensabilità nella gran bottega europea, sia economica sia finanziaria, o persino nella propria intelligenza e superiorità istituzionali, non si sia riusciti a imporsi o a concludere o a staccarsi prima, almeno per dare una prova del nove sul chi siamo. Non si dica che è per l’amore del dialogo o del mantenere i buoni rapporti con i vicini. Nessuno dopo tanti anni e tiramolla può crederci. La verità, che non si vuol dire, è che non è così facile e utile buttar via la cassa della bottega per una valigia incerta di sovranità. Tanto che si continua a ripetere, tremebondi, da Parmelin a Cassis a Economisuisse: la porta della bottega deve rimanere aperta.
L’atteggiamento di agenzia di soccorso (o di carità) lo si rileva in alcune dichiarazioni di politici e in alcuni commenti. Consiste nel costruirsi la certezza che a dover tremare per quell’abbandono è la grande ma fragile e sconnessa Europa e non la piccola e rocciosa Svizzera.
La quale, oltretutto, nei confronti dell’Europa, fa opera economicamente di soccorso (o caritatevole). Dapprima rimettendo sul tappeto il miliardo di coesione, contributo che la danarosa Svizzera vorrebbe comunque onorare, e che servirebbe ad “oliare” quegli ingranaggi europei che garantiscano buoni rapporti per salvaguardare i propri interessi. E’ sempre bottega, ma sa anche di filantropia con sconto fiscale. Metodo che va sempre più di moda nel capitalismo attuale. La sostanza di questo atteggiamento è però altrove.
È ovvio che l’Unione europea non l’abbia presa bene e che ritorsioni potrebbero esserci. Ed ecco allora che la Svizzera gioca d’anticipo, con qualche sottaciuto avvertimento. Unione europea e Bruxelles, non dimenticatevi che noi vi diamo e assicuriamo 800 mila posti di lavoro, che ci sono 300 mila frontalieri che lavorano da noi e che altri 500 mila producono (da voi) beni e servizi che al netto (deducendo quindi ciò che noi produciamo per voi) noi comperiamo da voi. E che noi vi comperiamo più di quello che vi vendiamo. E in questo genere di ritorsione si dimenticano, con poca intelligenza e poco realismo, almeno tre cose.
La prima che una Svizzera demograficamente esangue , dove le persone attive e il lavoro rimangono sempre e comunque il primo fattore della produzione economica e della salute finanziaria, senza quell’apporto importante di lavoratori europei potrebbe chiudere bottega in molti settori (pensiamo solo all’industria alberghiera o alla salute, ma persino nell’insegnamento ad alti livelli); d’altronde se ci arrivano, non ci arrivano a caso, ma su domanda, sempre pronti a rispedirli a casa al primo sentore di crisi, con una manovrabilità unica in Europa (che fa anche i nostri tassi di disoccupazione quasi nulli rispetto all’ Europa).La seconda è che quelle persone non sono delle “assistite” (dalla generosità svizzera), ma creano una gran fetta di reddito nazionale. Basterebbe pensare che ancora poco tempo fa è stato calcolato che tre quarti della crescita ticinese erano determinati da afflussi dall’estero di nuovi residenti e sono quelli che hanno protratto benessere al Cantone. Ora questo afflusso, divenuto ormai deflusso, non basta più ed ha peggiorato ulteriormente il bilancio demografico ed anche economico. E, per farne a meno o anche solo per contingentarlo radicalmente (come possibile ritorsione?) bisognerebbe rinunciare in buona parte al mito del PIL in continua crescita oppure ricorrere…alla manodopera là dove abbonda, come quella africana.
L’atteggiamento da marziani può svilupparlo chi più di me è esperto in politica internazionale. Ma, in fondo, è presto detto: in un mondo che va verso due forti e travolgenti polarizzazioni (Stati Uniti/Occidente – Cina/Asia) il ruolo dell’Europa dovrebbe essere fondamentale e forse salvifico. Non è sgretolandola, come vogliono i due supercolossi, e vivendo e comportandosi da marziani, extraeuropei dentro l’Europa, o pretendendo di essere il passeggero che non paga il biglietto, che riusciremo a non essere colonizzati non dall’Europa, in cui viviamo, ma dagli Stati Uniti o dalla Cina, come in parte già lo siamo.
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