Una questione di fiducia, e di menzogna
La città vuole movida, bella gente, rumorose libagioni, brutta musica sparata in faccia, presenza di riccastri. L’ex-Macello era una silente allusione a un’alternativa possibile
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La città vuole movida, bella gente, rumorose libagioni, brutta musica sparata in faccia, presenza di riccastri. L’ex-Macello era una silente allusione a un’alternativa possibile
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La città vuole movida, bella gente, rumorose libagioni, brutta musica sparata in faccia, presenza di riccastri. L’ex-Macello era una silente allusione a un’alternativa possibile
Vi sono elementi e dinamiche comunicative che manifestano in modo palese un atteggiamento in cui la relazione all’altro passa per il tramite della menzogna e dell’infingimento. È quello che mi sono detto ascoltando le parole che colui che regge le sorti della città ha speso per giustificare la vicenda dello sgombero e della demolizione dell’ex-Macello; evento assai luttuoso non per le perdite umane, ma per la cancellazione di taluni principi etici e democratici che ritengo fondamentali e di banale sensatezza.
Chiacchiere assurde a proposito di tetti che perdevano, di polizia che postula demolizioni, di interventi non pianificati e dettati dall’urgenza (anzi, dall’emergenza; e c’è qualcuno, un legale nientedimeno, che ha scomodato la Polizieklausel per tutto giustificare), in un profluvio di sciocchezze che è, tra l’altro, palesamento verbale della totale mancanza di rispetto per i destinatari di cotante balle, e in particolare per la loro intelligenza.
Mi fido poco poco di coloro che – soprattutto in politica – non comprendono il ruolo e la forza dei simboli, e soprattutto trascurano che occorre prudenza e intelligenza nel maneggiarli, a maggior ragione se si intende distruggerli, e con essi, i valori che essi incarnano; giocare con i simboli è pericoloso, si rischia di farsi molto male. Nel caso dell’ex-Macello, il luogo (che era fisico, certo, ma eminentemente simbolico in quanto alludeva alla permanenza di cose e di idee, a resilienze e a resistenze) è stato sostituito dalle macerie, anch’esse simboliche, evocatrici di un atto di inutile e stupida violenza, del tentativo di cancellare idee e diritti; e allusive di una forma mentale che sdogana l’arbitrio come mezzo di affermazione della forza del potere. Una violenza, per di più, perpetrata da coloro che abbiamo incautamente deputato a tutelare un territorio nella sua complessità, anche a livello di emozioni e di umano sentire; e certo non a sostenere partigianamente la posizione di una parte, sia essa pure maggioritaria, benpensante e fornita di poteri e di mezzi finanziari per comprarseli.
Sono attonito, ma non incredulo visto il track record di questo sindacato, che questo gravissimo vulnus ai principi e all’etica della democrazia sia potuto accadere da noi; per di più nel connivente silenzio di coloro che hanno tollerato questo scempio etico e ideale e che ora tacciono, piegando la testa sotto il vento dello sdegno, fiduciosi che passerà la buriana e si potrà continuare a fare come se nulla fosse stato. Parlo delle segreterie dei partiti, del legislativo comunale, del Cantone, tra i molti altri; con l’ovvia eccezione dei peggiori, cioè i vincitori di questo fine settimana di usuale pochezza provinciale. Due municipali ora si smarcano (in evidente imbarazzo per non essere nemmeno stati interpellati) e una denuncia penale è stata depositata contro l’esecutivo comunale per i fatti di sabato; ma siamo lontani dalla coralità di opposizione che un evento del genere avrebbe dovuto suscitare in un paese civile.
Lo sappiamo, e dobbiamo farcene una ragione: la città vuole movida, bella gente, rumorose libagioni, brutta musica sparata in faccia, presenza di riccastri (meglio se cafoni), proterve ostentazioni da Monte-Carlo in diciottesimo, sproloqui su inesistenti “eccellenze eno-gastronomiche”, appartamenti con imprendibili viste, schiamazzi ad ogni ora, etica del lusso, ignoranza arrogantemente esibita; “torneremo a vivere di eventi”, strilla una claim turistica dai cartelloni in centro, come se di “eventi” qualcuno – se non l’organizzatore – possa effettivamente vivere. In mezzo a questo stordente chiasso, la presenza dell’ex-Macello era una silente allusione a un’alternativa possibile (e questo indipendentemente dal giudizio, e dal credito che si può darle), in uno spazio autonomo e autarchico, a se stesso bastevole, alternativa rabbiosa e refrattaria ai compromessi; insopportabile per certuni, che hanno cercato, e infine trovato, il pretesto per eliminare un dissenso anche solo consumato in spazi chiusi, a volte ostilmente impermeabili. Nessuno può tentare di essere libero, se non si omologa e quindi rinuncia al sogno, questa la lezione.
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