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Aldo Sofia
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• 7 Febbraio 2023 – Aldo Sofia

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

In una notte d’inverno fatta di neve, ghiaccio, pioggia gelida, lungo e attorno a quella linea del poroso confine turco-siriano, la natura, in parte con la complice e improvvida mano dell’uomo, infierisce con una poderosa scossa tellurica. Migliaia di morti, ancora più numerosi i dispersi e i feriti, e fiumi di ‘fortunati’ scampati ma senza tetto. Come se il sisma avesse scelto di colpire proprio il cuore di tante tensioni, di tanti soprusi, di troppe guerre di cui quelle terre sono state levatrici e immondi palcoscenici: sempre guardati nella parte europea al di qua dei Dardanelli e dello stretto del Bosforo con distacco e insofferenza, disinteresse e indifferenza, se non per il timore di milioni di profughi in fuga dalle piaghe di quella parte di Oriente. A sud della Turchia, a settentrione della Siria. Proprio dove il passato recente si è accanito, ha accumulato nuove tragedie, ha innescato guerre ancora lasciate in sospeso.

Basti un nome, Aleppo. Città ora terremotata, e città resistente, già simbolo dell’atroce guerra siriana. Guerra civile e guerra per procura di potenze regionali e internazionali. L’Aleppo capitale del Nord, importante snodo geo-strategico, crocevia di civiltà, che in tempi non lontanissimi era ancora considerata epicentro e simbolo dell’economia siriana. L’Aleppo della ribellione contro il regime di Assad figlio (dodici anni di repressione e torture), del lungo assedio delle truppe fedeli alla dittatura, dei bombardamenti devastanti affidati ai piloti e ai caccia della Russia di Vladimir Putin, degli ospedali e delle scuole colpite scientemente dalle ‘barrel bomb’, le ‘bombe barile’, le più devastanti per i civili. Stima approssimativa, 31.000 morti in quella che venne battezzata (erroneamente) la “Stalingrado siriana”. La “strategia siriana” è entrata nel vocabolario della guerra, per dire della volontà di fare terra bruciata, polverizzata, maciullata dai bombardamenti.  Ora il terremoto ha completato l’opera devastatrice

Su quel confine, lungo il quale ieri notte il terremoto ha frantumato intere città, si snodava anche l’andirivieni (a volte ‘benevolmente’ ignorato dalle autorità di Ankara per i propri giochi politico-territoriali) dei tagliagole dell’Isis, dello Stato islamico proclamato nel 2014 a Mosul, poi diventata una delle due capitali, insieme a Rakka, della temporanea entità statale jhadista, il peggio prodottosi anche in seguito al collasso dell’Iraq, provocato dalla spartizione territoriale, improvvidamente seguita all’intervento americano-europeo contro Saddam Hussein. Ma chi lo ricorda ancora?

Sempre attorno all’epicentro del sisma passarono in tempi più recenti i carrarmati turchi e i reparti turcomanni, esercito di occupazione installatosi nel Nord della Siria per reprimere e controllare, sempre insieme alla sodale Russia, la “Rojava”, in territorio curdo-siriano, promettente esperimento anche sul piano sociale e dell’uguaglianza di genere di un’entità curda autonoma, che Ankara vede però come fumo negli occhi, al pari dei curdi irakeni, anche se soprattutto i primi sono stati gli unici a combattere e neutralizzare, combattendo sul terreno e subendo pesanti perdite, gli ‘uomini in nero’ dell’Isis.

Infine, la stessa Turchia. Il peggior terremoto, e il peggior bilancio, dell’ultimo mezzo secolo. Un paese guidato da Erdogan, guardato in mezzo mondo come saggio mediatore della guerra russo-ucraina, in realtà abile doppiogiochista fra Nato e Cremlino, che nel suo megalomane disegno di rifondare una sorta di neo-impero ottomano, ha inviato il suo esercito anche in Libia (ancora una volta in spartizione con l’alleato del Cremlino); fa il prepotente nelle acque mediterranee per sfruttarne i giacimenti energetici; ricatta l’Europa imbelle ricattandola a suon di miliardi per tenersi in casa e non far defluire verso il vecchio continente milioni di profughi siriani; arresta i leader locali della comunità curda; approfitta dello ‘strano’ tentato golpe del 2016 per imprigionare o neutralizzare migliaia di oppositori e centinaia di giornalisti; mette ai suoi ordini ampi settori della magistratura. Così ha trascinato la Turchia – lui, il profeta della crescita – in una profonda crisi economica, con una moneta nazionale in picchiata, e un’inflazione alle stelle  anche a  causa di una incongruente politica finanziaria.

Un ‘sultano’ che punta spregiudicatamente ad alimentare il nazionalismo turco, e che si sta preparando a una nuova elezione presidenziale: ha sperato di vincere nuovamente con improvvisi e spericolati sussidi e regalie (la decisione più bizzarra, la cancellazione dell’età pensionabile), contribuendo così a svuotare le casse dello Stato. Senza dimenticare accuse che già gli erano state mosse in precedenti disastri, quando il crollo di palazzi troppo fragili venne attribuito anche a case tirato su in terre sismiche troppo in fretta, in luoghi impropri, senza le opportune infrastrutture di sicurezza, frutto di una speculazione edilizia febbrile e favorita dal governo. Mentre non si può prevedere se la gestione del dopo-terremoto ostacolerà la rimonta di un Erdogan in cerca di rilancio, o addirittura lo favorirà.

Il tutto su macerie verso cui corrono i volontari da tutto il mondo. Anche dalla Russia. Anche dall’Ucraina. Con le squadre dei soccorritori di Mosca e di Kiev che magari si incontreranno per salvare In Turchia e Siria qualche superstite del devastante sisma. Ma che chissà quando si ritroveranno insieme sulle macerie della loro guerra.






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