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Diario della crisi – Inflazione da salari?
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Christian Marazzi
Christian Marazzi
Diario della crisi – Inflazione da...
• 8 Febbraio 2023 – Christian Marazzi

Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole

È sulla “wage inflation”, sull’inflazione da salari, che bisogna riflettere, dato che sembra al centro delle preoccupazioni sia delle banche centrali che dei mercati finanziari (Jay Powell: “wage increases are probably going to be a very important part of the inflation story going forward”).

Secondo l’International Labour Organization (ILO), nella prima metà del 2022 i salari reali globali sono diminuiti dello 0.9%. È la prima volta dal 2008. Comparativamente, nei paesi ricchi il declino è stato peggiore che nei paesi emergenti: nei paesi ricchi del G20 abbiamo un -2.2% (Nord America: -3.2%, in quelli emergenti del G20 +0.8%). Quindi, come la mettiamo con le analisi delle banche centrali, della Fed e di tutte le altre?

Il problema starebbe nel disallineamento tra domanda e offerta di lavoro: negli US ci sono 1.7 posti vacanti per ogni lavoratore disoccupato. Quindi – è questo il ragionamento – bisogna continuare a contrastare l’inflazione da salari se si vuole arrivare al tasso-obiettivo del 2% d’inflazione. Una sorta di politica monetaria preventiva.

Sul Financial Times Rana Foroohar cerca di spiegare il perché di questa discrepanza tra domanda e offerta di lavoro (Wage inflation is a mirage for most workers, FT 5 dicembre). Durante il 2021, a causa della pandemia, la partecipazione della forza-lavoro è precipitata e deve ancora ritornare ai livelli pre-pandemici. Molti sono ancora fuori dal mondo del lavoro a causa di malattie o per curare i più dipendenti. Ma una parte importante della storia è il pensionamento, che rappresenta la metà delle 3.5 milioni persone che mancano all’appello dei datori di lavoro. Molti anziani non hanno più trovato lavoro dopo la fase acuta della pandemia; altri si sono ritirati approfittando dell’effetto ricchezza (“wealth effect”, ossia le plusvalenze realizzate sui risparmi investiti in borsa) dei mercati finanziari negli anni recenti. Ci si chiede anche se nuove tendenze, quali la deglobalizzazione, i mutamenti demografici e le crisi climatiche, abbiano alterato l’elasticità di mercato del lavoro, creando più volatilità e inflazione. Nella sua analisi Rana Foroohar non accenna al fenomeno della Great Resignation, le Grandi dimissioni che, malgrado l’ondata di licenziamenti (1.3 milioni di persone) nei settori dell’Information Technology, dei servizi bancari e assicurativi e nella grande distribuzione (come Wallmart), hanno visto ancora nel solo mese di ottobre 4 milioni di persone dimettersi dal posto di lavoro, in particolare nel settore dei servizi, nell’istruzione, nell’assistenza sanitaria e nell’ospitalità[1].

Comunque sia, le imprese puntano sul miglioramento della produttività per far fronte a all’aumento dei prezzi, o investendo in tecnologia o con lo “shrinkflation”, cioè riducendo le dimensioni del prodotto o la qualità dei servizi (hotel, ristoranti, aeroporti). Secondo l’ILO, quest’anno nei paesi ricchi il gap tra crescita della produttività e salari reali ha conosciuto il maggior aumento dal 1999: la gente lavora molto di più e meglio, senza però vedere alcun beneficio per il proprio sforzo.

Siamo quindi ben al di qua della spirale prezzi-salari evocata per giustificare le politiche monetarie restrittive. Semmai, è di un’altra inflazione che occorrerebbe parlare, quella degli attivi finanziari, del settore immobiliare degli anni di politica monetaria ultra-espansionistica. “È una amara ironia costatare che mentre la politica monetaria ultra-espansiva ha alimentato bolle da tutte le parti, e ora i banchieri centrali devono reprimere l’inflazione, non hanno però gli strumenti per aggiustare ciò che si è davvero rotto nel mercato del lavoro”.

Più verosimilmente, ci stiamo confrontando con un’inflazione da profitti. A sostenerlo sul Financial Times (2 novembre) è addirittura Paul Donovan, capo-economista delle gestioni patrimoniali di UBS: “Le aziende hanno trasferito i costi più elevati sui clienti. Ma hanno anche approfittato delle circostanze per espandere i margini di profitto. L’ampliamento dell’inflazione oltre i prezzi delle materie prime è più un’espansione dei margini di profitto che delle pressioni salariali”.

Contraddizioni monetarie

È la Bank for International Settlements, la cosiddetta banca delle banche centrali (Quarterly review, 6 dicembre), che ha sollevato il paradosso delle politiche monetarie anti-inflazionistiche. Negli anni dei tassi di interesse nulli o negativi, nell’economia si sono accumulati tutta una serie di rischi di default che, come ha dimostrato la crisi del brevissimo governo di Liz Truss, quando si materializzano, costringono le banche centrali ad intervenire iniettando liquidità, contraddicendo così l’obiettivo di combattere l’inflazione attraverso la riduzione della liquidità in circolazione (tipica strategia monetarista di riduzione dell’offerta di moneta). Nel caso del mini-budget della Signora Truss del mese di settembre (forte riduzione della pressione fiscale sui ricchi, elargizione di sussidi per far fronte al caro-bolletta), molto mal visto dai mercati finanziari, sono stati i grandi fondi pensione a prestazione definita che si sono trovati a dover vendere precipitosamente i titoli di Stato per evitare la loro svalutazione, insomma per evitare il fallimento. La Bank of England era intervenuta per salvare il salvabile, ma ciò ha creato un precedente di “moral hazard”, di azzardo morale (di incoraggiamento ad assumere rischi, sapendo che le banche centrali non mancheranno di intervenire acquistando obbligazioni, cioè iniettando liquidità). Il rapido aumento dei tassi di interesse globali e la situazione precaria (scarsità) della liquidità sul mercato strategico dei Buoni del Tesoro statunitensi (come si è visto nel marzo del 2020 subito dopo l’esplosione della pandemia), porta la BIS a suggerire di intervenire d’urgenza nel settore finanziario non-bancario (dove si sono accumulati i maggiori rischi a causa di investimenti in titoli estremamente fragili). Dopo trent’anni di deregolamentazione dei mercati finanziari, è forse un po’ tardi.

Più in generale, è il passaggio dal quantitative easing al quantitative tightening che mette in evidenza alcune contraddizioni di fondo potenzialmente esplosive. Parallelamente agli aumenti dei tassi d’interesse, la Bce ha qualcosa come 5 mila miliardi di euro in titoli obbligazionari accumulati nel corso degli anni di quantitative easing da vendere nei prossimi mesi e anni. Ma questo piano si scontra con l’aumento dei debiti pubblici dei governi dell’eurozona previsti per il prossimo anno in conseguenza degli interventi di copertura dei costi energetici di famiglie e imprese[2]. Il rischio di una crisi del debito sovrano come quella del 2012 è elevato. In ballo c’è la “sostenibilità del debito” europeo. Il prossimo anno gli investitori privati saranno chiamati ad acquistare qualcosa come 300 miliardi di euro di debito pubblico. In gioco c’è la solidarietà tra i paesi dell’eurozona. L’Italia, ad esempio, con il suo debito pubblico (150% del Pil) è il paese che rischia maggiormente. Benché i rendimenti sui Buoni del Tesoro a dieci anni si siano abbassati, sono pur sempre tre volte superiori ai livelli d’inizio 2022. Di fatto, se in Italia l’inflazione può migliorare il rapporto debito/Pil, la condizione è che i tassi e lo spread non aumentino, pena l’azzeramento di quel beneficio[3]. Secondo la Goldman Sachs, la coalizione di destra del governo Meloni si trova “on a narrow fiscal path”[4].

Seconda parte del testo pubblicato anche dai siti “Effimera.org” e “Machina”
Qui tutti i
Diari della crisi


[1] “The great attrition of emploees shows no signs of slowing. Recent reports from management consultant McKinsey suggest as many as 40% are considering leaving their jobs, usually to seek a different type of career or ‘non-traditional work’, including temporary or part-time roles” (Gillian Tett, “What Musk misses about how this generation works”, FT, 20 novembre). Il tema delle Grandi dimissioni va ripreso e approfondito, in particolare per la “Playlist Generation”, come Gillian Tett chiama i giovani che stanno risignificando il lavoro e il rapporto tra vita e lavoro.

[2] L’Istituto di ricerca di Bruegel ha calcolato che dallo scorso mese di settembre i governi europei hanno già speso 573 miliardi di euro tra riduzione dell’IVA, trasferimenti alle famiglie povere, salvataggi delle aziende elettriche, ecc. Queste spese si aggiungono a quelle stanziate negli anni della pandemia peggiorando i già “claudicanti” debiti pubblici di molti Paesi. A ciò si aggiungono l’aumento delle spese militari concordate a livello NATO con l’obiettivo di giungere al 2% del PIL e soprattutto il costo dell’aiuto all’Ucraina che si articolerà nell’accoglienza di una nuova ondata di profughi e nel sostegno di un Paese che ha bisogno di 5 miliardi di dollari ogni mese per non finire in bancarotta e tutto ciò dimenticando gli eventuali costi della ricostruzione.

[3] A questo proposito, Stefano Lucarelli si pone le seguenti domande: “siamo certi che di fronte alla recessione la BCE possa davvero mettere in vendita sul mercato i titoli europei acquisiti? Se sì a chi li venderà? Sarà l’occasione per far nascere una Debt Agency? In questo scenario quale potrebbe essere il ruolo del MES (laddove l’Italia cedesse alle pressioni e lo votasse)? Oppure assisteremo ad un coordinamento fra FED e BCE e la FED diverrà una sorta di prestatore di ultima istanza per una Unione Monetaria Europea in cui si pretende di non far svolgere alla Banca Centrale questo ruolo? Sul piano politico questo potrebbe sancire un do ut des: tu Europa paghi i costi maggiori della ridefinizione geopolitica imposta dagli americani, ma noi ti garantiamo la sostenibilità delle finanze pubbliche…”

[4] Anche l’economista gesuita Gaël Giraud, in un suo articolo apparso lo scorso primo settembre su Avvenire, pensa che le politiche attuali delle banche centrali possano portare al collasso europeo. Nella stessa direzione il Financial Times del 15 dicembre (“ECB retreat to put Euro300bn strain on eurozone bonds”, 15 dicembre 2022).






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