“Democrazia sovrana”. È la formula ufficiale dell’attuale sistema politico russo. Venne teorizzata da Vladislav Surkov, ex consigliere di Vladimir Putin, poi allontanato dalle stanze del Cremlino. Sostiene Surkov sull’ultimo numero della rivista “Limes”: “La cosa essenziale (ndr: della ‘democrazia sovrana’) è che non occorre copiare alla cieca le istituzioni altrui; alcune cose occorre adottarle, ma altre no. È infatti cruciale, nella costituzione di un sistema politico, tener conto delle caratteristiche della cultura e della psicologia nazionale”. Come dire: nella Russia che in sostanza non ha mai conosciuto né democrazia parlamentare né Stato di diritto, una delle “caratteristiche” che si proiettano dallo zarismo al sovietismo al putinismo è una magistratura asservita al potere nel limitare o cancellare le libertà individuali.
Così è stato anche ieri, nell’aula semideserta improvvisata in un carcere di massima sicurezza, a 250 chilometri da Mosca, quando i giudici hanno emesso nei confronti di Alexei Navalny la sentenza attesa e gradita al Cremlino: altri 19 anni di carcere, stavolta per “estremismo” (sulla base di sei “capi d’accusa”); che si aggiungono agli 11 anni (due scontati) del processo del 2021, dopo che il dissidente ebbe il coraggio – per il regime la ‘sfrontatezza’ – di rientrare a Mosca dalla Germania, dove era stato curato per un avvelenamento avvenuto, chissà ad opera di chi?, durante un trasferimento aereo dalla Siberia alla capitale russa. Con quella sentenza il regime rispose alle accuse di corruzione che il condannato aveva formulato nei confronti dello ‘zar’, decine di migliaia di persone scesero in piazza per protestare contro un’accusa scarsamente documentata e una pena spropositata. Lo è anche oggi. Ma era prima dell’ “operazione militare speciale” contro l’Ucraina (invasione, per chiunque fuori dalla Madre patria), la repressione si è ulteriormente inasprita, inimmaginabili le manifestazioni di un biennio fa.
In realtà Navalny non dovrebbe far così paura a Putin, che si è attrezzato di metodi “legali” assai convincenti per imbavagliare ogni tipo di contestazione. Altre dure condanne di oppositori; la chiusura del “Memorial” e del “Centro Sacharov” (che tenevano viva la denuncia degli anni di uno stalinismo che il presidente sta invece in buona parte riabilitando); epurazioni anche fra i ‘sospettabili’ del sistema e nelle alte sfere dell’esercito; diversi suicidi sospetti. Una panoplia di provvedimenti che dall’autoritarismo hanno condotto alla dittatura. Quindi, nel caso di Navalny, si tratta essenzialmente di “preduprezhdenie”: cioè “monito, avvertimento” destinati a un’opinione pubblica russa oggi in realtà più che altro preoccupata (in sintonia con l’Occidente) soprattutto dei fantasmi di uno scenario di caos evocato dalla “ribellione” della sedicente “orchestra” Wagner di Evgeni Prigozhin, il mercenario traditore, figlio del sistema, e quindi (per ora?) immediatamente perdonato. Si avvicinano inoltre elezioni amministrative, parlamentari e presidenziali: e l’autocrazia non intende correre il minimo rischio (in particolare quello dell’astensione) soprattutto quando è aperto un fronte di guerra, e fin troppe famiglie, si parla di almeno 30.000, nelle periferie più povere dell’impero piangono i figli caduti nella guerra di Putin.
Così Alexei Navalny, un totale di trent’anni fra le sbarre, viene sistemato con un ergastolo “quasi a vita” (“la mia, o quella del regime?”, ci ha scherzato su l’interessato); inoltre, condizioni carcerarie e di isolamento anche da famigliari, amici, avvocati particolarmente dure, che in pratica rischiano di spuntare l’arma che gli è più cara: anche dalla prigione, la parola, la denuncia, l’incoraggiamento alla sua organizzazione, pur disarticolata dalla crescente repressione. Qualcosa di cui finora i suoi carcerieri non erano riusciti a privarlo. Ora, visti i termini di detenzione, potrebbero farcela. Non saranno certo le rituali proteste occidentali ad alleggerire la mano pesantissima della giustizia subordinata al potere. Di più potrebbero eventualmente fare le sorti della guerra, ma soltanto se virassero in favore di Putin.
A questo punto non sarebbe il caso che la pur benemerita “Amnesty International” rivedesse una controversa decisione, adottata contro il detenuto russo pochi anni fa? L’organizzazione umanitaria decise, dopo un tormentato dibattito interno, di continuare a chiederne il diritto di esprimersi e la libertà, ma di negargli lo status di prigioniero di coscienza per dichiarazioni inconfutabilmente razziste che in passato Navalny aveva pronunciato, in particolare contro i migranti dell’Asia centrale. Era la sua fase di acceso nazionalismo. In seguito dichiarò di essere dispiaciuto di quelle sue affermazioni, ma per l’organizzazione umanitaria mancava un autentico pentimento e una dichiarazione pubblica di auto-dissociazione. Mosca accolse la notizia con conclamata soddisfazione. La direttrice dell’ufficiale “Russia Today” ne approfittò per definire Navalny “un nazista” (scarsa fantasia, ormai non c’è nemico che per il Cremlino non sia un erede di Hitler). È trascorso un decennio. Il “prigioniero a vita” non si è più riproposto con parole inaccettabili. È sicura “Amnesty” di non doversi ricredere?
Nell’immagine: Alexei Navalny con i suoi legali