Chi riscrive la storia?
Quando per principi di opportunità i politici si mettono a fare il mestiere degli storici
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Quando per principi di opportunità i politici si mettono a fare il mestiere degli storici
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Quando per principi di opportunità i politici si mettono a fare il mestiere degli storici
Dobbiamo «riscrivere» la storia del fascismo e dell’antifascismo nell’Italia repubblicana in nome della «pacificazione» nazionale. In vista della celebrazione di un 25 aprile che non si vuole più «divisiva», questa sorta di invocazione viene continuamente ripetuta, non solo, com’è ovvio, nell’ambito dell’area neofascista attualmente al governo, ma anche in un’area più vasta di «pacificatori».
Ci si appella alla necessità di una comune riflessione ispirata alla pietas per le giovani vittime della violenza negli anni di piombo. Questo atto doveroso, però, non ha nessun bisogno di riscritture della storia, né, tantomeno, di «pacificazione» tra forme fascismo e antifascismo. Nessuno dei pacificati/pacificatori si è posto alcune domande essenziali concernenti il carattere della conoscenza storica: che cosa significa «riscrivere» la storia? Chi la riscrive e con quali strumenti analitici? I politici che vogliono la «riscrittura» a quale tipo di studi pensano di fare riferimento? Con chi intendono «parlare», insomma?
Giorgia Meloni, ad esempio, parla con un’immagine di storia, un’evocazione di nebulose atmosfere intessute di memoria a sfondo revanscista. Non parla assolutamente con la storia come frutto del lavoro degli studiosi di mestiere.
«Riscriviamo pure la storia e facciamolo come un rifiuto della violenza e dell’odio»: afferma il senatore del Pd Walter Verini («Corriere della Sera», 17 aprile). Con chi «parla» Verini»?
Possiamo escludere ch’egli, proprio come la Presidente del Consiglio, «parli» con i risultati e i metodi della storiografia professionale.
Per i cultori della «fiamma» tale pratica è elemento costitutivo di un’agenda politica assunta a partire immediatamente dopo il 1945. Altrettanto costitutiva una prospettiva del tutto inversa da parte della tradizione politico-culturale da cui molti dei parlamentari Pd dicono di fare un qualche riferimento. Per i parlamentari del Pci degli anni Settanta e Ottanta ogni discorso sulla storia non poteva che partire dai risultati raggiunti dalla storiografia sull’oggetto considerata pertinente dalla comunità scientifica. Per costoro un’affermazione come quella di Verini sarebbe stata causa di un penoso stupore.
Ovviamente il deputato Renato Zangheri o il senatore Giuliano Procacci, due tra i più autorevoli storici europei del secondo dopoguerra, l’avrebbero giudicata priva di qualsiasi fondamento storico e politico. Però, anche il deputato Rolando Tamburini, prima operaio siderurgico, poi segretario di Camera del Lavoro, poi sindaco di Piombino e infine parlamentare, l’avrebbe sentita del tutto estranea ad una cultura politica, la sua, per la quale la storia era elemento fondamentale della conoscenza di una realtà ch’egli voleva cambiare radicalmente. E proprio per questo doveva essere conoscenza reale, scritta secondo le metodologie più critiche e innovative.
Non si «riscrive» la storia per «rifiutare odio e violenza». La «riscrittura» è elemento consustanziale del lavoro storico. La riscrittura è il frutto continuo della ricerca e dell’innovazione metodologica, è elemento essenziale di ampliamento e approfondimento conoscitivo. La conoscenza storica è esplicativa delle fratture profonde, come quella del 25 aprile 1945, non certo di una loro immaginaria ricomposizione. Anzi il fatto che molte delle nuove ricerche mettano in rilievo il legame tra la guerra civile 1919-1921 e quella 1943-1945 (in non pochi casi le stesse persone ne furono protagoniste) spinge a riflettere ulteriormente sul carattere dirimente del 25 aprile.
Si tratta, infatti, di una data che apre alla possibilità del rovesciamento di aspetti fondamentali di un ordine sociale del quale il fascismo del ventennio era stato il massimo garante. Sappiamo bene come il rapporto tra cesure e continuità sia complesso, e come, dopo il 1945, le nuove forme di ricomposizione dell’ordine sociale si ritrovino ad incrociarsi con le nuove/vecchie forme fascismo.
Nel novembre 1921 Emilio Lussu fu testimone del Congresso in cui i Fasci italiani di combattimento divennero Partito Nazionale Fascista. Assistette al Congresso appartato nell’angolo di un palco. L’aveva fatto entrare uno squadrista figlio di un ricco agrario della valle padana che era stato sottotenente nel battaglione comandato dal capitano Lussu e che conservava nei suoi riguardi sentimenti di rispetto e ammirazione. Lo squadrista aveva una mano lacerata.
– Quei briganti mi hanno ferito durante un attacco notturno.
– Quali briganti?
– I contadini.
– Ma i contadini attaccavano o erano attaccati?
– No, attaccavamo noi. E siamo riusciti a stroncarli. È finita la cuccagna. Pensi che ogni contadino guadagnava persino quaranta lire al giorno.
– E adesso?
– Ah, ora le cose sono cambiate.
– Ma quanto guadagnano ora?
– Quattordici lire. E sono anche troppe.
(Marcia su Roma e dintorni, 1933)
Nella nostra riflessione sul rapporto tra la frattura del 25 aprile e le lunghe continuità è da questa consapevolezza che dobbiamo sempre ripartire.
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