Tragedia del Sudan e mire del Cremlino
Perché i due generali nemici cercano l'appoggio interessato di Mosca
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Perché i due generali nemici cercano l'appoggio interessato di Mosca
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Perché i due generali nemici cercano l'appoggio interessato di Mosca
Di Domenico Quirico, La Stampa
Il Sudan ha una storia senza requie, scorre con l’impeto del Nilo, il suo fiume travolgente, il fiume magico. Pensi che tutto ormai sia stabilito, regolare, durevole. Passano alcuni mesi è tutto ridiventa fluido e spesso radicalmente mutato. Gli articoli scritti un anno fa non servono già più, sono superati dall’accavallarsi degli avvenimenti: sempre drammatici. Eppure, golpe dopo golpe, la sensazione è quella di una scena eguale, senza sviluppo come il fotogramma di una pellicola ferma. La tragedia qui si coniuga al presente. Sotto un’interminabile canicola si attende che il sole sfochi all’orizzonte in un vibrante luccichio, come se il mondo esalasse l’ultimo respiro. A Kharthoum c’è poco da vedere. Si sta ad ammirare il Nilo, le acque gialle di quello Bianco che si mescolano con quelle bruno verdi del Nilo azzurro. Anni fa, se non erano disturbati dai battelli, si vedevano i coccodrilli prendere il sole appiattiti sulle lingue di sabbia, simili a tronchi secchi abbandonati dalla corrente. Pazienti. Rassegnati. Si attende.
Prendete i due protagonisti della guerra che da due giorni trasforma la capitale nel campo di una confusa battaglia, stordita dal fumo che si leva dai quartieri che ospitano i luoghi del Potere e i comandi militari, guizzi di clamidi bianche in strade deserte, gente che rischia la vita per cercare cibo o una zona della città più sicura. I morti sono già decine, i becchini lavorano in fretta tenendo d’occhio il cielo in cui sibilano, scaricando razzi, caccia ed elicotteri.
Non è la rivoluzione, purtroppo. Un regolamento di conti tra criminali in uniforme, tra sudici cleptocrati ornati di greche e usurpate medaglie: il generale Abdel Fattah al-Burhan, capo della giunta militare che nei 2021 ha spazzato via a mitragliate un fragile tentativo di speranza democratica e Mohamed Hamdam Dagalo detto “Hemetti”, capo degli squadroni della morte, il boia del genocidio nel Darfur.
Non c’è un buono e un cattivo, non perdete tempo a distinguerli. Sono due ex complici che hanno litigato per il bottino, ovvero il Sudan, i suoi morti di fame, la sua miseria, i suoi traffici, le sue miniere. Le milizie, i “janjawid”, i diavoli a cavallo responsabili della pulizia etnica, dopo il golpe sono state inglobate nell’esercito con il pomposo nome di Forza di intervento rapido. A cui era affidato anche il lucroso controllo delle frontiere e dei migranti, con il sostegno finanziario dell’Unione Europea.
Un modo, nei piani di Burhan, per metter loro in uno solo colpo divisa e museruola, ridurle all’obbedienza, limitando così gli appetiti del loro padrone. Sì, perché Hemetti ha ambizioni vaste, vuole il potere, tutto. Così ha scatenato il suo esercito, che ha ben armato, contro quello regolare. Non gli manca l’impudenza. Pensate: lui, il genocida, accusa l’ex socio di essere «un criminale da consegnare alla giustizia» per aver tradito le speranza di «democrazia» e invita il popolo a scendere in piazza al suo fianco per rovesciare la giunta.
Ti prende lo scoramento pensando al 2019 quando i sudanesi dopo tre generazioni di dittature, l’ultima quella di al Bashir, il complice di Bin Laden, estrassero quasi alla cieca dal proprio coraggio e dalla propria disperazione una imprevedibile rivoluzione. Fu uno scoppio di realtà, il destarsi di antiche speranza che non si osava nemmeno confessare, di rabbie tumultuose, di contraddizioni fino ad allora nascoste. Una rivoluzione, sì, ma priva di idee come spesso in Africa. Durò poco due anni e molti morti. Poi tutto tornò come prima: spazzata via la festa, l’accampamento della democrazia vicino al ponte di ferro sul Nilo azzurro, le scuole per i bambini di strada , le distribuzioni di cibo per i poveri, le infinite discussioni sulla libertà possibile, temporanea ed eterna.
Tornarono subito gli esponenti di una gerarchia militare infognata di gente feroce, arretrata, avida, di un attaccamento vischioso al potere e alle sue prebende. Gli Hemetti e i Burhan, appunto. Sì perché se sollevi le divise di stile britannico quello che conta, sempre, è il portafoglio dell’ esercito, un patrimonio saggiamente diversificato, dall’allevamento dei polli all’immobiliare, alle miniere.
Già, le miniere. Hemetti, un massacro dopo l’altro, è diventato uno degli uomini più ricchi del Sudan. Non solo ripulendo il Darfur ma anche nelle province del Kordofan e del Nilo azzurro. Il dittatore al Bashir ordinava e i suoi tagliagole eseguivano. Massacri saccheggi stupri razzie di bambini trasformati in mini soldati efficaci, crudeli, a basso costo. Dieci anni dopo un altro Ruanda, lo stesso odore del Mostro, la stessa omertà, 800 mila orfani del diritto internazionale, eccezioni dell’imperialismo umanitario. Non lo sottovalutiamo, questo ex commerciante di cammelli è più che un rozzo manovale delle pulizie etniche. Ha intuito che in Africa il vento stava cambiando, i tempi un po’ sonnacchiosi del post colonialismo occidentale erano al tramonto. C’erano i cinesi , ma soprattutto erano tornati i russi. Non più i sovietici e le stagionate frottole dell’internazionalismo proletario. Ma il sorriso implacabile di Putin e i suoi apostoli africani con kalashnikov e società minerarie al seguito, ovvero Evgheni Prigozhin e la Wagner. Offrono armi, «sicurezza» e contratti in cui si può fare a metà senza retoriche umanitarie e rimorsi. Nella sinfonia africana di Putin i golpisti sudanesi suonano gli strumenti fondamentali.
È vero, l’infiltrazione russa qui è iniziata ai tempi di al Bashir, isolato dalla sanzioni, braccato dalla lumachesca giustizia internazionale. Il nuovo imperialismo russo era un alleato perfetto: piovevano armi moderne, istruttori militari, addirittura la firma per la concessione di una base navale vicino a Port Sudan, di fronte ad Aden dove passa il dieci per cento del commercio mondiale. Era la duplicazione africana di Tartus in Siria, il ritorno dell’orso che aveva imparato a nuotare in mari perduti dopo la chiusura della base sovietica in Somalia nel 1977. Il contratto prevede la concessione per 25 anni, una rada per ospitare almeno quattro navi da guerra tra cui unità a propulsione atomica, una guarnigione militare russa di 300 uomini con immunità diplomatica.
Il cambio di dittatori al potere ha solo rafforzato l’intesa. Khartoum è diventata il nodo centrale del sistema Wagner. Nella sede dei servizi segreti sudanesi e con la loro mediazione è stato siglato l’accordo con i gruppi armati del Centrafarica che ne ha fatto una delle “colonie” russe del continente insieme al Mali e al Burkina Faso. Per questo si ipotizza che Mosca potrebbe essere il regista del tentato golpe di Dagalo. Il paradosso della guerra tra i due generali è che entrambi sono legati alla Russia. Mentre l’attenzione dell’Occidente è fissa su quanto accade in Ucraina Putin sta vincendo la guerra in altre zone del mondo, seduce regimi dittatoriali che gli assomigliano e che diventano dipendenti da lui per la sopravvivenza autocratica, controlla zone del mondo, si assicura materie prime che diventeranno sempre più decisive in una guerra mondiale che è già in corso e che durerà decenni. L’Ucraina è solo il pretesto, la miccia usata da Mosca per dar fuoco all’incendio. Bakhmut non conta nulla, serve a ipnotizzarci. La vittoria si giocherà nel Sahel, in Africa centrale, in Medio oriente. E domani nel Mar cinese e a Taiwan.
Nell’immagine: la situazione in Sudan il 22 aprile scorso. In rosso le forze del RSF di Mohamed Hamdan Dagalo “Hemetti”; in blu l’esercito nazionale di Abdel Fattah al-Burhan (SAF)
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