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Travolto dalla crisi economica, sempre prigioniero degli scontri settari e inter-confessionali, il Paese dei Cedri è anche al centro di una dura battaglia internazionale


Redazione
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Chi soffia sul fuoco delle tragedie libanesi
• 23 Ottobre 2021 – Redazione
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Di Antonio Negri, il manifesto (19 ottobre 2021)

In Libano la storia si replica in tragedia, anche nelle apparenze. Le raffiche di kalashnikov, la gente nelle strade che corre al riparo, le barricate incendiate, i morti: è quanto si è visto negli scorsi giorni nelle strade di Beirut, scene da guerra civile caratterizzate da incomprimibile settarismo.

Ma non è soltanto così: il paese dei Cedri è al collasso economico e allo stesso tempi al centro di una battaglia internazionale. Non da oggi, ma da quando è cominciata la guerra in Siria nel 2011 – con il coinvolgimento degli Hezbollah libanesi e l’afflusso di centinaia di migliaia di profughi – e ancor prima nello scontro sempre presente con Israele. Un fronte permanentemente caldo, come testimonia la guerra del 2006 e la presenza al sud del contingente Unifil (ONU), con la partecipazione di 1.500 militari italiani.

Una missione per stabilizzare la ‘linea blu’ tra Libano e Israele, dove la tensione è sempre presente. Non a caso Israele chiede lo scioglimento della missione ONU perché non lavora per il disarmo di Hezbollah, mentre secondo Tel Aviv l’Iran continua a trasferire missili alle milizie sciite. È questo il casus belli che Israele si tiene sempre pronto a sfoderare per giustificare eventuali azioni militari terrestri e aeree in Libano, come testimoniano i fragorosi voli quotidiani di avvertimento dei caccia israeliani.

La guerra siriana, con l’asse della Mezzaluna sciita (Assad-Teheran-Hezbollah e retrovia irakena) è stato il vero spartiacque regionale che poi ha condotto al formarsi, con l’appoggio decisivo degli USA, del Patto di Abramo tra Israele e le monarchie del Golfo. Il Patto è la bussola americana e israeliana per tutta la regione, e un pezzo consistente del Medio Oriente ha come nemico primario, l’Iran, uno secondario, la Siria di Assad, e nel mirino tutti gli altri alleati sciiti della regione, dagli Hezbollah agli Houthi in Yemen, alle milizie sciite sia in Siria che in Iraq. Una volta il Patto di Abramo colpisce direttamente come nel caso degli attentati contro generali e scienziati iraniani, una volta indirettamente prendendo di mira gli alleati della repubblica islamica. La cosa è evidente in Siria, dove Israele decide di colpire le milizie filo-sciite senza che per altro nessuno protesti, neppure Mosca, schierata sul campo a fianco di Assad dal 2015. Per questo non sono casuali gli scontri divampati in seguito alla protesta di Hezbollah e Amal contro il giudice che si occupa delle indagini sulla devastante esplosione del 4 agosto 2020 al porto di Beirut, alla ricerca di una verità che probabilmente non sapremo mai. Chi ha sparato stavolta sui manifestanti? Le raffiche sarebbero partite dal quartiere di Ai nel-Remmaneh, roccaforte del partito cristiano delle Forze Libanesi di Samir Geagea, rivale dei due movimenti sciiti – per altro, non dimentichiamolo, anche forze parlamentari e di governo –, che controllano invece il confinante quartiere di Shiyah.

Samir Geagea contro Hassan Nasrallah, guida di Hezbollah: è la sindrome del Libano, in cui la vita politica gira sempre intorno agli stessi personaggi. Sembra la solita intricata vicenda sullo sfondo di un paese al collasso economico e sociale, oltre che diviso dalle storiche contrapposizioni settarie. Mancano l’elettricità, il carburante, la valuta locale è quasi carta straccia, e un terzo della popolazione vive sotto la soglia di povertà. Ma la crisi libanese, dopo la recente fiammata di violenza, potrebbe diventare qualcosa di più ampio e pericoloso di una sfida settaria.

Gli sponsor esterni fanno parte della scenografia degli eventi libanesi, un dato scontato ma sempre presente. Se l’Iran è con la Siria l’alleato degli sciiti, Emirati e Arabia Saudita lo sono dei falangisti cristiani, come dimostrano anche le tragedie del passato. Insomma, si soffia sul fuoco di un nuovo incendio libanese. Con due obiettivi: indebolire la Mezzaluna sciita e allontanare una soluzione diplomatica al tavolo del negoziato con l’Iran, uno dei mantra dell’attuale governo israeliano, così come lo era quello di Netanyahu. Anche se non c’è più Trump alla Casa Bianca, con Biden il trumpismo non è finito. Questa amministrazione dice di voler incoraggiare il multilateralismo ma lo fa solo quando gli fa comodo: per esempio, il recente G-20 romano sull’Afghanistan è stato utile per scaricare ulteriormente il peso del fallimento degli Stati Uniti sulle Nazioni Unite. Ma quando c’è da cogliere altri risultati, come far fuori qualcuno oppure scatenare un certo caos organizzato per indebolire i nemici, Washington punta sempre su Israele e sul Mossad.

Biden ha dichiarato di voler tornare all’accordo sul nucleare cancellato da Trump nel 2018, ma non appare scontato. ‘Il tempo stringe’ ha detto qualche giorno fa il segretario di Stato Antony Blinken riguardo al rilancio dell’accordo (Jcpoa) sul programma atomico civile di Teheran al termine di un incontro a Washington con il ministro degli esteri israeliano Yar Lapid e il capo della diplomazia degli Emirati Abdullah Bin Zayed Al Nahyan. E ha aggiunto: ‘Siamo pronti ad altre opzioni se l’Iran non cambia rotta’. E qual è l’opzione? Forse non una guerra diretta all’Iran, ma sicuramente la messa sotto pressione della Mezzaluna sciita, a partire magari proprio dal Libano. Ed ecco spiegato come Beirut in questo scenario sia diventato il punto di convergenza internazionale di un conflitto più ampio, come è sempre tragicamente avvenuto in passato.






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