Con chi «parla» Giorgia Meloni?
Di certo non “dialoga” con la letteratura scientifica che conferma il ruolo dello Stato nei processi e nei progressi economici del modello capitalista
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Di certo non “dialoga” con la letteratura scientifica che conferma il ruolo dello Stato nei processi e nei progressi economici del modello capitalista
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• – Franco Cavani
Di certo non “dialoga” con la letteratura scientifica che conferma il ruolo dello Stato nei processi e nei progressi economici del modello capitalista
«Hai visto il re francese?» chiese una volta Federico il Grande a d’Alembert.
«Sì, ho visto Sua Maestà» rispose il filosofo.
« Che cosa ti ha detto?».
« Non mi ha parlato».
«E con chi parla?» chiese stizzito il re.
Questa annotazione tratta da «fogli volanti» di Petr Andreevič Vjazemskij, acuto, ironico e disincantato osservatore/protagonista della vita politica e letteraria russa dell’Ottocento, è aspetto di uno dei lasciti più importanti della cultura illuminista. La convinzione, cioè, che l’esercizio del potere politico, in particolare quello ai livelli apicali, non possa prescindere dalla coniugazione con un’intelligenza delle cose elaborata, anch’essa, ai livelli apicali.
È un fatto che, nella fase attuale di consolidamento del «capitale totale» in tutte le su espressioni, tale esercizio sia diventato irrilevante per un ceto politico al quale non sono più delegati reali poteri d’intervento sui meccanismi di fondo dei processi di accumulazione. Tuttavia un capo di governo il cui pensiero sulla società e sull’economia prescinda dall’esigenza di «parlare» non tanto con i «d’Alembert» (peraltro in giro non se ne vedono molti), ma con coloro che hanno conoscenza reale dell’oggetto su cui esercita il flatus vocis, è indicatore sostanziale della qualità del suo governo politico.
«Non è lo Stato che genera lavoro …», afferma in continuazione la signora presidente del Consiglio italiano. «Falso», per dirla con il titolo di una preziosa collana di Laterza. Se la signora Meloni avesse «parlato» con qualche libro di storia economica relativo ai modi dello sviluppo del capitalismo in età moderna e contemporanea, sarebbe stata colta da qualche dubbio? Gli studi in proposito ci dicono che agli inizi degli anni Sessanta, quando l’Italia ridusse drasticamente la disoccupazione, la spesa in innovazione tecnologica ed in investimenti nella ricerca (condizioni fondamentali della creazione di lavoro) fu sostenuta per il 50% del totale dall’impresa pubblica.
Se la Presidente avesse «parlato» con quei libri si sarebbe risparmiata di dire sciocchezze?
No, quelle sciocchezze non se le sarebbe rispamiate. Il progetto governativo della signora Meloni non sfiora nemmeno la sfera economico-sociale, regolata in automatico secondo l’agenda neoliberista. L’accettazione in toto di quell’agenda e delle sue narrative permette, però, di non mettere in pericolo il sostegno al suo governo dei poteri economico-finanziari dominanti.
La retorica sui padroni come unici job creators, sebbene storicamente falsa, non è però indicativa di alcuna forma di fascismo. Tuttavia resta essenziale per mettere in sicurezza le politiche derivanti da ciò che i governanti, esponenti dell’attuale «forma» fascismo, «ascoltano» davvero. Infatti il solido ancoraggio all’ordine sociale neoliberista, nazionale ed internazionale, scongiura qualsiasi intervento dei custodi di tale ordine nella sfera che Fratelli d’Italia considera l’area privilegiata della propria vocazione governativa.
La Presidente del Consiglio «parla» con la «fiamma» che campeggia nel simbolo del suo partito, «parla» cioè con la lunga storia (dal 1946) del neofascismo italiano e dei suoi motivi ispiratori e fondanti. Parlare con una storia di lunga durata e sentirsene erede, impegnarsi a fondo perché i suoi valori costitutivi siano ancora rilevanti nelle condizioni molto mutate del nostro presente, è cosa assai seria. A Meloni va dato atto di averne perseguito e di perseguirne con coerenza e pertinacia il lascito: cancellare la cesura che una Costituzione fatta contro il fascismo, nata dalla sconfitta del fascismo, aveva introdotto nella storia d’Italia.
L’antifascismo della Costituzione non consiste tanto nelle norme transitorie che riguardano il divieto di ricostituzione di un partito fascista sotto ogni forma, quanto nei numerosi articoli che affrontano il nodo di un nuova democrazia economica, di un nuovo ordine sociale. Per questo la storia dell’applicazione della Costituzione italiana è stata un processo tormentato, contraddistinto da profonde oscillazioni. Il testo promulgato il 27 dicembre 1947 ha quasi sempre dovuto convivere con un ordine sociale che le era contraddittorio, un ordine sociale che veniva da lontano, che il fascismo storico non aveva rotto bensì consolidato. Da subito si aprì un divario tra le istituzioni formali e quelle informali dello Stato, e fu l’insieme informale che «annacquò, distorse, o sovvertì» (A. Capussela, Declino. Una storia italiana, Luiss, 2019) quello formale indicato nella Costituzione. E in quelle vicende di «distorsione» e «sovvertimenti» molti di coloro che «parlavano» con la «fiamma», come dimostrano studi seri e sentenze della magistratura, non ebbero certo parte secondaria.
Ora Meloni, e la confraternita dei «parlatori» con lo spirito della «fiamma», sono convinti di essere arrivati alla fase finale della partita: la riduzione dell’antifascismo ad elemento episodico in una continuità della storia italiana dove le «forme fascismo», invece, sarebbero componente ineliminabile.
Nei modi odierni di una declinazione superficiale dell’antifascismo, ci sono tutti i motivi perché le loro speranze possano non andare deluse
Nell’immagine: l’inquietante continuità della “fiamma”
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Un luogo dove si eserciti la cooperazione, la comunicazione, la creatività, l’autonomia dell’allievo con maestri normali, né eroi né missionari