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Di Lucio Caracciolo, La Stampa

 

Ma chi comanda in Europa? Fino al febbraio dello scorso anno, la risposta suonava ovvia: gli Stati Uniti sul piano strategico e militare, con la Germania a mettere insieme una politica economica per l’Eurozona compatibile con i propri interessi mercantili e con la propria cultura monetaria. L’egemonia americana si esprimeva via Nato, sulla base del motto originario: «Americani dentro, russi fuori, tedeschi sotto». La subegemonia economica tedesca, sotto ombrello atlantico ovvero protettorato americano, verteva sulla vestizione europea delle priorità germaniche. L’invasione russa dell’Ucraina e l’inasprirsi della sfida fra Washington e Pechino hanno travolto queste certezze. E prodotto interessanti paradossi. Dei quali l’Italia dovrà tener conto per non finire fuori gioco. Cominciamo dagli Stati Uniti. Non passa giorno senza che da Casa Bianca e dintorni ci si comunichi che noi europei non siamo in cima ai loro pensieri (con la simpatica eccezione irlandese, fissazione di Biden per via di sangue).

Perché la bussola è il contenimento della Cina. Gli apparati a stelle e strisce si preoccupano di noi quasi solo per impedire che l’influenza cinese in Europa diventi troppo pervasiva. Vale soprattutto per la competizione tecnologica – ossessione americana – meno per i commerci.

La guerra in Ucraina viene dopo. Per l’ottima ragione che Washington ha già raggiunto il suo obiettivo strategico: rompere l’interdipendenza energetica fra Russia e Germania. Il 7 febbraio 2022, tre settimane prima dell’inizio della guerra, Biden aveva pubblicamente proclamato davanti al silente cancelliere Scholz: «Noi porremo fine ai gasdotti Nord Stream 1 e 2. Prometto che saremo in grado di farlo». Che siano stati direttamente sabotatori americani a eseguire la volontà del presidente o altri che ne condividessero i propositi, alla fine il risultato è Usa batte Germania-Russia due a zero.

Il secondo obiettivo era dare una lezione a Putin tenendo unita la Nato. La partita è in corso. Il risultato incerto. Il sostegno alla resistenza ucraina ha sventato la presa russa di Kiev, ma la guerra di attrito nel Donbas continua. Il Pentagono lamenta che sta esaurendo gli stock di munizioni. Ed è in ritardo di quattro anni nelle forniture di armi a Taiwan perché le deve stornare verso l’Ucraina, teatro secondario. Molti negli apparati americani vorrebbero chiudere entro l’anno la guerra in stile coreano: una «Corea del Nord» – i territori ucraini in mano ai russi – concessa a Mosca e una «Corea del Sud» – il grosso del paese, sotto Kiev, «garantita» (si fa per dire) dalle maggiori potenze. Con gli europei a pagare il grosso della ricostruzione. Due utopie difficilmente fanno una realtà.

Quanto all’unità della Nato. Che cosa accomuna la posizione polacca a quella francese, quella turca alla romena, quella inglese all’ungherese, per tacere della sfinge germanica? La lista dei contrasti potrebbe continuare. Riemerge l’antica faglia intraeuropea fra Est e Ovest. Per dirla all’americana, fra Nuova e Vecchia Europa. In geopolitica, fra i paesi dell’ex patto di Varsavia oggi avanguardie antimoscovite in lotta per liquidare la Russia e i paesi della Nato originaria indisponibili a farla finita una volta per tutte con l’impero russo. Anzi, pronti a riconsiderarne a guerra sospesa il ruolo nella sicurezza continentale.

Lo iato fra le due Europe è scolpito dalle recenti uscite del presidente francese Macron e del premier polacco Morawiecki. Il primo, reduce da piacevoli retrouvailles con Xi Jinping: «Essere alleati dell’America non significa esserne vassalli». Slogan di stampo gollista, basso continuo della geopolitica francese anche oggi che il caos scuote l’Esagono. Dunque l’Europa (sinonimo di Francia) non deve seguire gli Stati Uniti nell’accelerare la crisi di Taiwan. Né deve «umiliare» Putin. Il secondo replica da Washington, dove ha prenotato ricche forniture di caccia F-35 e missili aria-terra Jassm Xr con gittata di 1.900 chilometri: «L’impero del Male che Putin ha costruito negli ultimi 23 anni è rinato all’Est. I barbari russi non minacciano solo l’Ucraina ma tutta l’Europa e l’intero mondo libero. La Nuova Europa lo capisce. È tempo che anche la Vecchia Europa lo capisca». Intanto Varsavia insiste per ottenere un trilione e 300 milioni di euro da Berlino a titolo di riparazione dei danni subìti nella seconda guerra mondiale. La Germania considera la pretesa irricevibile.

E noi? Abituati al doppio vincolo americano (strategico) e tedesco (fiscale) male ci adattiamo al clima «ciascuno per sé nessuno per tutti». Finora si trattava di eseguire, emendare o aggirare le direttive americane ed eurogermaniche. Oggi serve stabilire quel che possiamo volere. Nei nostri limiti, non così limitati come preferiamo credere per non impegnarci troppo. Ad esempio: sull’Ucraina stiamo con la Polonia o con la Francia? O con nessuno dei due? Il memorandum firmato nel 2019 con la Cina e in scadenza l’anno prossimo lo rinnoviamo, lo denunciamo (linea prevalente) o inventiamo qualche garbuglio? E come ci regoliamo con la Germania, in seria crisi di identità interna e autorità europea, nelle trattative sul patto di (in)stabilità e (de)crescita, sospeso il quale abbiamo conosciuto una breve stagione di sviluppo con tassi da miracolo economico e oltre?

Valga metafora ciclistica. Fino a ieri stavamo nel gruppone tirato da altri. Ben riparati da alleati più o meno sinceri che ogni tanto si voltavano per assicurarsi fossimo ancora lì. Oggi ciascuno pedala con lo sguardo fisso nella nebbia, naso sul manubrio. Raramente si gira. E se non ci trova non ci aspetta.






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