Confucio, Mao, Xi Jinping e il capitalismo di Stato
La grande crisi dell’immobiliare cinese investe un settore che rappresenta addirittura il 30 per cento del Pil nazionale; i timori occidentali di un contagio finanziario
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La grande crisi dell’immobiliare cinese investe un settore che rappresenta addirittura il 30 per cento del Pil nazionale; i timori occidentali di un contagio finanziario
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La grande crisi dell’immobiliare cinese investe un settore che rappresenta addirittura il 30 per cento del Pil nazionale; i timori occidentali di un contagio finanziario
Una buona dose di confucianesimo (“imparate a mangiare amarezza”) e un richiamo al maoismo (“andate a lavorare in campagna” per capire la durezza della vera vita e della disciplina). Questo ha detto di recente Xi Jinping al 20% di giovani cinesi disoccupati (cifra ufficiale, probabilmente inferiore al dato reale) dopo decenni di spettacolare sviluppo economico. Rispolverando, con questi amabili consigli, pure una pagina mitologica della sua stessa biografia, vergata naturalmente dagli scrivani del regime comunista come fosse una Bibbia, in cui si racconta come l’allora sedicenne figlio di un “principe del partito” caduto in momentanea disgrazia (rivoluzione culturale), si unì “di sua spontanea volontà” a una brigata di produzione agricola nel villaggio nella contea settentrionale di Yanchuan (900 chilometri dalla natia Pechino) per essere “rieducato dai contadini poveri”, impegnandosi, il ragazzo, a camminare anche “per cinque chilometri attraverso un terreno montuoso, con cinquanta o cento chili di grano per molto tempo e senza cambiare spalla”.
Non si sa quanto i ragazzi figli del “miracoloso” capitalismo di Stato seguiranno il “didatta supremo”. Probabilmente assai poco. La gioventù cinese sembra oggi un po’ meno malleabile e facile al richiamo dell’imperatore. Soprattutto ora che il decantato modello di sviluppo vacilla, pur senza crollare. La crisi del mattone cinese è impressionante: certificata e simboleggiata in particolare (ma non unicamente) dai debiti ultramiliardari della società “Evergrande”, la più indebitata del mondo, 340 miliardi di dollari, e 81 miliardi di perdite, che è stata addirittura costretta a “umiliarsi” chiedendo alle autorità americane di varare il meccanismo di protezione dai creditori statunitensi per evitare il fallimento. Fosse soltanto questo: problema nel problema, il settore immobiliare contribuisce addirittura per il 30% al Pil cinese (ricchezza nazionale).
Il calo delle compravendite immobiliari nell’ “Impero di Mezzo” segna uno spettacolare -20% (la stessa cifra negativa registrata dalla Borsa di Hong Kong dall’inizio del 2023). Si rastrellavano enormi capitali e si costruivano appartamenti in palazzi e grattacieli, spesso rimasti invenduti a una classe media in crescita esponenziale ma intimorita, in parte impoverita, dalle difficoltà economiche seguite al blocco provocato prima dal lungo e rigidissimo lock-down da Covid 19 (gestito non proprio esemplarmente), poi dall’intasamento delle merci da esportare bloccate a lungo nei porti, infine dalle conseguenze della guerra in Ucraina e dal partenariato con Mosca, che ha aggravato le sanzioni soprattutto tecnologiche e che rimette in discussione una mondializzazione di cui per anni (dopo quelli dei brevetti “rubati”) Pechino ha largamente beneficiato. Una crescita che comunque già una trentina di anni fa l’economista (e premio Nobel) Paul Krugman aveva segnalato come abbondantemente dopata.
Avendo ampiamente e volontariamente contribuito a fare della Cina “la fabbrica del mondo”, e nell’era delle inevitabili automatiche interconnessioni finanziare, l’Occidente si interroga sul “pericolo contagio” di quello che un giornale americano ha definito “un momento Lehman” della seconda potenza economica mondiale: c’è infatti chi teme che, così come la crisi americana del 2008 propagò i suoi veleni in tutti i paesi del sistema capitalista, anche quella che fronteggia oggi Pechino possa far sentire i propri effetti negativi sulle economie occidentali. Timore comprensibile, ma improbabile. Non soltanto perché la crescita spropositata del debito del settore immobiliare che fronteggia il regime di Xi è stata alimentata da capitali, banche e investitori quasi esclusivamente cinesi. Ma anche perché Pechino possiede titoli di Stato americani per circa un miliardo di dollari. Semmai è da vedere in che modo gli scossoni di oggi, con relativa perdita reputazionale, possano rallentare il grande cantiere e il procedere di quella “Via della seta” (multi-continentale infrastruttura di collegamenti e investimenti), ritenuta indispensabile nelle stanze della Città proibita per l’espansione o la colonizzazione indiretta di economie nazionali, sviluppate o meno.
Sulle conseguenze del domino cinese peserà infine la strategia che il potere sceglierà per uscire da una fase di difficoltà che evidentemente non è solo “crisi del mattone”. Da tempo il partito comunista ha deciso una svolta con cui intende ridurre autonomia e indipendenza del settore privato, di cui avverte, per la sua stessa sopravvivenza al potere, la necessità di dover controllare gli eccessi. Forse anche attraverso la possibilità di impartire una pesante lezione. E il caso “Evergrande” potrebbe esserlo. Non sorprende dunque che per il momento sembra che l’autorità centrale abbia fatto sapere che non intende intervenire per salvare i colossi malati del suo settore immobiliare, ripianando le perdite attraverso un intervento pubblico. Insomma, non saremmo al nostro “too big to fail”. Apparenti contraddizioni del “capitalismo di Stato”. Che di per sé, è già ossimoro.
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