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Di Michele Bellini, Il Mulino

45 per cento in 7 anni: è questo il livello di riduzione delle emissioni globali da raggiungere entro il 2030 per salvaguardare il pianeta e noi stessi. Si tratta di uno dei dati principali con cui si devono confrontare i leader mondiali a Sharm El Sheik, dove è iniziata la Cop27, appuntamento annuale per giudicare i progressi fatti rispetto agli impegni presi.

Ogni anno, tristemente, il copione sembra lo stesso: si prende atto del ritardo accumulato, dei progressi insufficienti e dell’ampio gap tra promesse e fatti nella riduzione delle emissioni. Il problema, per quanto sembri scontato, è proprio il tempo. Non a caso, il rapporto 2022 del programma delle Nazioni Unite per l’ambiente (Unep) pubblicato alcuni giorni fa, si intitola “The closing window”. Perché ogni anno che passa, senza neanche minimi progressi, quella finestra di opportunità per limitare il surriscaldamento globale a 1,5° è sempre più stretta, tanto che Inger Andersen, Direttrice Esecutiva di Unep, nel presentare il rapporto ha affermato che “stiamo scivolando dalla crisi climatica alla catastrofe climatica”.

Allora, ogni anno, è sempre più pressante un interrogativo di fondo, in apparenza così banale, ma al tempo stesso estremamente complesso: perché, nonostante tutti stiamo vivendo direttamente gli impatti negativi del cambiamento climatico, continuiamo a non fare (neanche lontanamente) abbastanza per ridurre le emissioni?

Naturalmente la risposta varia in base al contesto specifico. Nelle democrazie liberali, non si può evidentemente prescindere dal fatto che l’avanzamento di un’agenda climatica ambiziosa è legato alla sua capacità di attrarre consenso. (…) Attivare o intercettare una forte spinta dal basso ha il potere di influire sull’ambizione delle politiche e sulla velocità della transizione ecologica necessaria. In altre parole, diventa essenziale capire come creare un processo virtuoso per cui partiti politici e governi che puntano su ambiziosi programmi di contrasto e adattamento al cambiamento climatico possano massimizzare le loro chance di essere premiati alle elezioni.

Possiamo, dunque, vedere l’interrogativo precedente come una tensione tra la consapevolezza che il cambiamento climatico sia un problema e, conseguentemente, vada affrontato e la ancora limitata capacità di politiche per il clima di riscuotere gli stessi livelli di efficacia elettorale rispetto a temi più tradizionali, come questioni sociali o identitarie.

Per provare a risolvere questa tensione, serve innanzitutto partire da alcune considerazioni relative al contesto, tutt’altro che neutrale.

Per prima cosa, è evidente che il consenso verso ambiziose politiche per il clima non sia una questione di consapevolezza. “Non perderò tempo a parlare degli effetti del cambiamento climatico. Li conosciamo tutti. Li sentiamo tutti.” – dice sempre Inger Andersen. La maggior parte delle persone sa che il cambiamento climatico è in atto ed è un problema da affrontare. Semmai, la mancata consapevolezza è su aspetti più precisi e riguarda, in particolare, i due grandi capitoli della magnitudine della sfida e delle sue tempistiche. Oggi, infatti, non sembra ancora esserci una piena comprensione della profondità e dell’urgenza delle trasformazioni di cui abbiamo bisogno: riorientare un intero sistema produttivo e la società nel suo insieme in pochissimo tempo.

In secondo luogo, bisogna fare i conti con un diffuso pessimismo sul fatto che dalla sfida posta dal cambiamento climatico possano esserci benefici per l’occupazione e, in generale, maggiore benessere economico. In altre parole, è una condizione vissuta dalle persone in modo difensivo e scettico rispetto alle possibilità di farcela. Nel sentire comune, a prevalere sono i rischi, non le opportunità. Esiste, cioè, la preoccupazione che la transizione ecologica per contrastare il cambiamento climatico generi vincitori e vinti. D’altra parte è nella natura di ogni transizione generare effetti redistributivi, che saranno maggiori tanto più profonda e radicale sarà la transizione.

Allora, non basta la paura per creare il consenso necessario attorno a un’ambiziosa agenda climatica. Anzi, insistere soltanto sulla paura, per quanto possa avere effetti positivi per accrescere il senso di urgenza, rischia paradossalmente di aumentare il pessimismo e rafforzare lo status quo. La chiave di volta sta nel creare un framing positivo, ma pur sempre credibile, di questa sfida, per convincere le persone che esiste una possibilità di futuro effettivamente migliore e non solamente una serie di opzioni “meno peggio”. In altre parole, serve ribaltare l’attitudine difensiva e lo scetticismo, dimostrando che possiamo contemporaneamente fare bene al nostro pianeta, a noi stessi e alle nostre società.

Come? Dato il contesto, diventa essenziale un’offerta politica fatta di misure chiare, concrete e il più possibile specifiche. Non basta parlare di sostenibilità in senso astratto o esclusivamente etico: “bisogna farlo perché è giusto”. Sebbene un’agenda climatica debba indubbiamente essere ampia e trasversale, questa deve essere articolata in misure specifiche e credibili che mostrino chiaramente, da un lato la propria efficacia nel ridurre le emissioni, dall’altro come concretamente andare da A a B. In questo il pacchetto Fit For 55 della Commissione europea, non a caso il pilastro essenziale del Green Deal europeo, rappresenta un esempio virtuoso, perché offre obiettivi precisi e una roadmap chiara di come raggiungerli, settore per settore.

Non funziona, invece, un approccio a scatola chiusa che si focalizzi solo sul punto di approdo – un mondo a impatto zero sul clima e in equilibrio con l’ambiente – senza creare consenso sul percorso, cioè sulla transizione stessa.

È esattamente il motivo per cui contrastare il pessimismo di partenza non può avvenire attraverso l’eccessivo ottimismo della retorica win-win. Una simile retorica infatti, oltre a dare l’idea di una completa disconnessione con la realtà, si concentra esclusivamente sull’esito della transizione – che sì, potrà essere caratterizzato da benefici netti – e, così facendo, ignora il durante e finisce per non dare centralità agli effetti redistributivi, lasciando indietro lavoratori e settori.

Oltre a essere chiare, concrete e specifiche, le politiche che compongono un’agenda climatica capace di attrarre consenso devono prestare molta attenzione alla distribuzione di costi e benefici e intervenire perché questi siano calibrati in modo da ridurre, non aumentare, le disuguaglianze. In concreto, questo significa nuovi strumenti di Welfare da un lato e di politica industriale dall’altro, con compensazioni che evitino l’esplodere delle disuguaglianze. Più che sull’aumento della consapevolezza, allora, il limitato capitale politico a disposizione andrebbe investito su questi due aspetti: l’efficacia nel ridurre le emissioni e nel riorientare un intero sistema produttivo, e la gestione degli effetti redistributivi generati.

In questo modo c’è una speranza non solo di contrastare il diffuso pessimismo, ma anche di ribaltare la narrazione sulla sfida climatica, da negativa a positiva, riscoprendo parole come cambiamento e futuro senza che siano per forza associate a paura e incertezze. È un’opportunità per la politica, specialmente per la sinistra che, non solo da noi, è alla costante ricerca di un’identità moderna che le permetta di abitare appieno il XXI secolo.

Che cosa c’è di meglio di una questione profondamente trasversale come il cambiamento climatico, che si intreccia con molte delle battaglie storiche della sinistra, sulla quale costruire un’identità moderna? Il cambiamento climatico non va forse al cuore del lavoro e dei diritti dei lavoratori? Non interroga profondamente l’architettura dei sistemi di Welfare? Non tocca da vicino le grandi questioni dello sviluppo del capitale umano e del benessere della persona? Non è forse strettamente legato alle istanze di giustizia sociale e di coesione delle nostre società?

Naturalmente, a quanto detto finora bisogna aggiungere un ulteriore ingrediente, tutto politico, che non può mai mancare, anche alle politiche meglio strutturate, a qualsiasi piattaforma che ambisca a generare consenso: la capacità di tradurre la razionalità di buone proposte programmatiche in un messaggio con la forza emozionale in grado di intercettare lo spirito del proprio tempo. Come abbiamo visto anche nell’ultima campagna elettorale italiana, è l’elemento emozionale, sintetizzato nel messaggio, a essere decisivo e più determinante di qualsiasi programma, per quanto solido e serio.

Se alla politica (purtroppo) ancora è mancata quella capacità di generare emozioni, così non è per l’attivismo a difesa del pianeta promosso da associazioni e movimenti della società civile, che sono riusciti a entusiasmare molte persone e attivarle. Serve, allora, lavorare anche per un incontro fertile tra società civile e istituzioni, sfruttando il potenziale che offrono le numerose modalità innovative della partecipazione democratica. Così, si può evitare di rimanere nella sterile e dannosa dicotomia tra protesta e proposta, che vede la società civile relegata esclusivamente alla prima, e le istituzioni totalmente incapaci di produrre risultati. Un divario che oggi appare sempre più ampio, come mostra simbolicamente l’assenza alla Cop27 di una disillusa Greta Thunberg, ma che solo una buona politica può colmare.






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