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Redazione
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Di Adrià Budry Carbó e Robert Bachmann, Public Eye

Si propone qui in versione italiana curata dalla redazione un estratto di un’approfondita inchiesta del sito svizzero “Public Eye” dedicata al commercio di carbone nel mondo, ed in particolare al ruolo cruciale che ha, in questo campo, il nostro paese. Per leggere l’intero dossier (in originale inglese o francese) si rimanda dunque al citato sito. Per un’ampia anticipazione sugli esiti della ricerca giornalistica si veda anche quanto riferito in anteprima dalla RSI, nella sua edizione del TG di ieri e nel suo sito. (red.)

Materie prime

La Svizzera, con i suoi gruppi minerari, i suoi mediatori e le sue banche, svolge un ruolo centrale nel commercio globale del carbone. È quanto rivela il nostro rapporto “La Svizzera sulla sua montagna di carbone”, frutto di un anno di ricerche e di contatti privilegiati con un settore che per sua natura si mostra poco, e con molta diffidenza, perché ostracizzato dalla società. La guerra in Ucraina e il conseguente disordine sui mercati energetici ci hanno tuttavia ricordato la nostra dipendenza dai combustibili fossili più inquinanti. Spetta ora alla nostra generazione agire per consegnare definitivamente il carbone ai libri di storia. Ma dobbiamo prendere atto che questo non sarà possibile senza sacrifici per il mercato svizzero delle materie prime.

Il suo nome è carbone

Il più inquinante dei combustibili fossili sta tornando in auge nel XXI secolo. La fine della pandemia, la guerra in Ucraina, le turbolenze sui mercati energetici: tutto sembra giovare al carbone. Mai come nel 2022 il carbone è stato estratto, commercializzato e consumato. Una manna per l’economia svizzera, un disastro per il clima.

A differenza del cugino petrolio, il carbone è privo di fascino. Non evoca né le grandi fortune costruite sui petrodollari né gli intrighi geopolitici, ma i fallimenti della rivoluzione industriale. Tuttavia, il carbone non è stato relegato nei libri di storia. Al contrario: non è mai stato estratto, trasportato e consumato così tanto come nel 2022, in cui si prevede che la produzione supererà gli otto miliardi di tonnellate. Si tratta del 72% in più rispetto all’inizio del millennio. Questo fa dire allo storico della scienza francese Jean-Baptiste Fressoz, durante la sua conferenza “Une histoire politique du CO₂”: “Non c’è mai stata una transizione energetica”.

La crescita della popolazione, l’elettrificazione e il disordine dei mercati energetici assicurano un futuro brillante al “Re Carbone”. Con la finanziarizzazione e l’internazionalizzazione del suo mercato, la Svizzera è tornata a far parlare di sé, ospitando dai primi anni 2000 le sedi dei principali gruppi minerari e dando vita a un vero e proprio ecosistema di fuliggine tra Zugo, Ginevra e Lugano.

“E perché dovremmo perderci tutto questo? Il carbone è il combustibile fossile più economico e abbondante del pianeta ed è essenziale per far uscire un quarto dell’umanità dalla povertà energetica”, afferma un commerciante che ha accettato di parlare del suo lavoro con Public Eye.

L’argomento dello sviluppo non può essere liquidato a priori. La sfida di elettrificare parte del continente africano e i Paesi dell’Asia meridionale rimane fondamentale nella lotta al declino economico. Ma non c’è dubbio: il carbone è la materia prima con il peggior rapporto energia / inquinamento. È responsabile del 40% dell’aumento delle emissioni di anidride carbonica (CO₂).

I Paesi emergenti devono quindi evitare di cadere nelle stesse trappole del Vecchio Continente, legandosi a lungo termine alla fuliggine, le cui esternalità negative non sono quantificabili.

Il binomio di imprenditori che ha reso la multinazionale Glencore quello che è oggi ha gettato le basi del polo carbonifero svizzero a Zugo negli anni ’90. La calamita del più grande esportatore del mondo ha attirato altri gruppi minerari e imprenditoriali, che si sono gradualmente trasferiti anche nei centri finanziari di Lugano e Ginevra. La Svizzera conta attualmente 245 aziende attive nel settore del carbone.

La carta geografica svizzera del carbone

La Svizzera ha chiuso la sua ultima miniera di carbone dopo la Seconda Guerra Mondiale 75 anni fa. Eppure è diventato un peso massimo nel commercio internazionale del carbone intorno al 2000. Russi, americani o indiani, i più grandi gruppi minerari del mondo si sono insediati tra Zugo, Ginevra e il Ticino con una progressione ben lungi dall’essere casuale.

All’origine del polo carbonifero svizzero ci sono due personaggi noti nel mondo del commercio e della giustizia americana: Marc Rich e Ivan Glasenberg. Definito il “padrino del petrolio” dai giornalisti della Bloomberg Financial News Agency Javier Blas e Jack Farchy nel loro libro “The World for Sale”, Marc Rich ha “plasmato” il mercato svizzero delle materie prime trasferendosi a Zugo nel 1983, dopo essere fuggito dalla giustizia statunitense che lo accusava di evasione fiscale e di aver aggirato l’embargo sul petrolio iraniano. Fu a Zugo che scelse di creare la società Marc Rich & Co. che, nell’aprile del 1984 , assunse un giovane commerciante sudafricano dai denti lunghi e con un’idea fissa: il carbone aveva un futuro brillante davanti a sé. Insieme, Marc Rich e Ivan Glasenberg hanno gettato le basi del futuro polo carbonifero svizzero.

Quando Marc Rich & Co ha acquisito una partecipazione in Xstrata nel 1990, la società si chiamava ancora Südelektra ed era specializzata nel finanziamento di grandi progetti di infrastrutture elettriche in America Latina. Sotto la guida del suo nuovo azionista di maggioranza, ha utilizzato la sua quotazione in borsa per raccogliere fondi per Marc Rich, iniziando così la sua diversificazione nel settore minerario.

Nello stesso periodo, Ivan Glasenberg è stato nominato capo del dipartimento carbone della Marc Rich & Co, ribattezzata Glencore nel 1994. Per Marc Rich, non c’era dubbio che Ivan fosse “l’uomo che avrebbe semplicemente portato Glencore ad un livello superiore”.

Già nel 1998, spinse l’azienda a indebitarsi per acquistare miniere di carbone. I prezzi delle materie prime erano ai minimi, alla vigilia di un superciclo, un periodo prolungato di crescita della domanda superiore all’offerta, che avrebbe reso felice il settore. L’azzardo ha dato i suoi frutti. Fino ad allora pura azienda commerciale, Glencore si è assicurata l’accesso a decine di milioni di tonnellate di carbone e la possibilità di influenzarne il prezzo e la produzione. Nel 2000, Glencore era già il più grande esportatore di carbone termico al mondo, con un sesto del commercio globale. (…)

All’inizio degli anni 2000, la maggior parte dei gruppi minerari internazionali ha aperto le proprie filiali commerciali e/o la propria sede centrale a Zugo, Lugano o Ginevra. Intorno a loro, decine di commercianti specializzati nella vendita di una materia prima diventata improvvisamente globale. E così la Svizzera si è affermata come un vero e proprio centro del commercio internazionale di carbone.

Secondo l’indagine di Public Eye, ci sono attualmente 245 società registrate in Svizzera attive nel commercio di carbone estratto nelle proprie miniere, acquistato sui mercati o in transazioni over-the-counter; o, ancora, per fornire servizi finanziari legati al carbone o a qualsiasi suo derivato. A Zugo il numero di aziende è di 54, in Ticino di 55 e a Ginevra di 78.

“Il carbone fa gola a tutti”, ha dichiarato Ivan Glasenberg. L’ex CEO di Glencore ha il merito di aver sempre creduto nella rinascita del commercio di carbone. È stato lui a spingere il gigante di Zugo in una corsa all’acquisizione di miniere negli anni ’90. Il tempo gli ha dato ragione: nel 2022 il carbone viene commercializzato a un prezzo tre volte superiore a quello dell’anno scorso. Quest’estate Glencore, con le sue 26 miniere e la sua forte posizione di mercato, ha firmato un contratto annuale record per una centrale elettrica a carbone in Giappone. Il prezzo: 375 dollari USA per tonnellata. Le trattative tra la multinazionale di Zugo – la cui produzione è aumentata del 14% nella prima metà del 2022 – e i suoi clienti giapponesi sono state esaminate dall’intero settore, che considera le tariffe ottenute come un punto di riferimento per il prossimo anno.

Ivan Glasenberg non ha mai perso occasione per parlare delle grandi virtù delle rocce sedimentarie davanti ai media e agli azionisti. Nel febbraio del 2019, però, sotto la pressione di un gruppo di investitori spinti da preoccupazioni ambientaliste, Glencore ha dovuto annunciare un congelamento della produzione di carbone (a 150 milioni di tonnellate all’anno). Da allora, il carbone non fa più parte della comunicazione attiva di Glencore, che preferisce parlare del suo cobalto e del suo rame, due elementi fondamentali della transizione energetica, nelle stazioni e nei treni svizzeri.

Si può essere il più grande esportatore di carbone al mondo e “contribuire alla riduzione delle emissioni”. Nelle stazioni ferroviarie e nei treni della Svizzera, il gigante delle materie prime Glencore non teme certo le contraddizioni.

Anche al vertice sulle materie prime, il FT Global Commodities Summit di Losanna, i commercianti di carbone sembrano occupare un posto separato e marginale. “Il carbone non è sexy, macchia le mani. È un prodotto che richiede una lavorazione minima”, afferma Lars Schernikau, tedesco dell’Est, che vive in Svizzera da circa 20 anni ed ha il merito di aver scritto uno dei pochi lavori accademici sul mercato del carbone. È anche attivo direttamente nella commercializzazione del carbone, da quando ha assunto la direzione della società commerciale del padre. “Trent’anni fa, persino io mi chiedevo chi avrebbe avuto ancora bisogno del carbone”, ammette. Nessuno ha più prestato particolare attenzione a questa forma di  energia. Da allora, le cose sono molto cambiate, non solo e non certo in senso favorevole alla “transizione ecologica”.  






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