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L'arresto di Matteo Messina Denaro chiude un'era di mafia. Ma i futuri uomini d'onore saranno più ambiziosi dei loro predecessori
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L'arresto di Matteo Messina Denaro chiude un'era di mafia. Ma i futuri uomini d'onore saranno più ambiziosi dei loro predecessori
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L'arresto di Matteo Messina Denaro chiude un'era di mafia. Ma i futuri uomini d'onore saranno più ambiziosi dei loro predecessori
Dispaccio redazionale da Dissipatio
«Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; quelli che ci sostituiranno saranno gli sciacalletti». Messo il punto finale alla vita criminale dell’ultimo boss di Cosa Nostra, Pietro Mancini su Dissipatio ricorda l’amara considerazione che il Principe Fabrizio Salina donava all’emissario sabaudo Chevalley nel Gattopardo: «Noi siamo il sale della terra». Parole che non possono essere ridotte a una semplice, e quantomai banale, rappresentazione dell’ineluttabilità del destino siciliano, così come non ci si può fermare alla descrizione dell’inarrestabile dissoluzione della classe nobiliare, con le sue tradizioni e valori del passato. Nelle parole del Principe c’è tutta l’incomprensione del Nord nei confronti del Sud, che prima di tutto è una condizione dello Spirito. Una distanza insanabile, l’insieme delle promesse di miglioramento socio-economico disattese, delle promesse di rinascita buone solo a mitigare lo stato di salute di un popolo “morente”. L’immobilità di cui la Sicilia (o meglio il Sud) soffre, sintomo della malattia dietro la quale lo stesso Principe si nasconde, svela la verità dietro il velo della realtà: caduta l’aristocrazia domina una classe di corrotti approfittatori e rapaci sciacalletti, quella borghesia imprenditoriale che si sostituisce al potere consolidato senza esserne all’altezza sul piano morale.
Matteo Messina Denaro è stato assicurato alla giustizia. Non sappiamo con certezza quanto vasto ed effettivo fosse il suo potere oltre le province di Palermo, Trapani e Agrigento, e se il suo arresto adesso non sia il sintomo di un passaggio di potere al vertice di Cosa Nostra, come qualcuno inizia a sostenere. Di certo, gli ultimi anni del suo governo sono stati segnati da un abbassamento della violenza mafiosa verso le istituzioni, una strategia che Totò Riina gli rimproverava dalla cella, oltre che da affari e intrecci silenziosi con le altre famiglie siciliane e con le organizzazioni criminali più importanti di tutta Italia, dal controllo territoriale, dagli appalti milionari, come quello degli impianti eolici nel trapanese. Il suo lungo governo è stato anche transitorio: Cosa Nostra, proprio a causa della forte esposizione mediatica e giuridica legata alle violenti stragi degli anni Novanta, è tra le organizzazioni mafiose quella che ha perso più terreno negli ultimi anni, ha perso il controllo delle maggiori tratte del narcotraffico e del commercio delle armi, ha perso molto del suo potere economico e finanziario, al contrario della ‘Ndrangheta che invece ha accresciuto esponenzialmente il volume dei propri affari. Per i più attenti osservatori, il declino (o l’ascesa) è iniziato dallo sbarco degli americani durante la Seconda Guerra Mondiale in poi. La grande trattativa prima della Trattativa.
E quindi dov’è la vittoria? Cosa cambia adesso nella lotta alle mafie? Dopo un naturale sentimento di soddisfazione nel vedere finalmente uno dei più feroci criminali della storia italiana (uno che, per capirci, è stato capace di uccidere una donna incinta e di segregare per quasi due anni un minore, uccidendolo infine), cosa resta? La sensazione che forse tutto sembra cambiare, ma in realtà non ci sia nulla di diverso, nei fatti. Nessuna organizzazione è stata decapitata, Messina Denaro era un’autorità, un nome riconosciuto da chiunque, ma nulla più di un simbolo. Specie oggi che il potere mafioso, un tempo nelle mani di un gruppo di spietati uomini d’onore siciliani, si trova altrove, non troppo lontano, ma pur sempre altrove. Il Signore di Castelvetrano è la personificazione della lotta alla mafia, ma nulla ha a che vedere con la lotta alla mafia. La differenza è sottile e fondamentale.
Un personaggio creato in vitro, la cui grandezza è stata ampiamente amplificata perché ideale rappresentante di tutto ciò che si vorrebbe la mafia fosse: rurale, ignorante, cinematografica. Non è così, e non è così già da anni. La mafia è prepotenza. Quella, purtroppo, non si può arrestare. E nel mentre serpeggia il dubbio, alimentato da vecchie interviste a personaggi di second’ordine, ma anche di membri più autorevoli della società civile, come Salvatore Borsellino, fratello del giudice Paolo. È lui a presentare una teoria che già aveva trovato diffusione nei bar e nei luoghi d’incontro della società siciliana: l’arresto di Messina Denaro è parte di un gioco più grande, fra Stato e criminalità. Una trattativa che deve avvantaggiare ambo le parti. Un gioco a somma zero in cui a perderci è l’idea che vi sia davvero una guerra fra guardie e ladri, invece che una comunanza d’intenti in nome della stabilità e dei danari.
Una mafia come quella dei film, storicamente rimasti fermi all’idea che gli alleati nel 1943 ne ebbero vedendo quei pastori con le lupare, gli stessi fra cui Michael Corleone si nasconde in una delle pellicole più famose della storia del cinema. Una mafia da film, per l’appunto, lontana dalla realtà. Che non è neanche più quella di Scorsese, formata dai tanti piccoli “operai della malavita”, buffi quanto spietati. La mafia è una mentalità fatta di prevaricazione, ma anche di solitudine e costante chi va là. È solo la famiglia che conta, solo di loro ci si può fidare. Una vita tribale, una di quelle che vede nell’altro solamente un potenziale nemico. Una vita da cani. Non è una sorpresa che i nuovi uomini d’onore vogliano affermarsi in maniera differente da chi li ha preceduti.
Anche perché Cosa Nostra è in declino da trent’anni, e il rispetto portato a Messina Denaro dai criminali della sua stessa risma è quello portato ai vecchi saggi senza potere. Deferenza, ma non sottomissione. Il potere mafioso oggi è in Calabria, laddove non esistono “pentiti”, perché il sangue è sacro, soprattutto se è stato versato. Ed è integrato nelle ramificazioni globali della ’Ndrangheta, che portano un giro d’affari stimato di circa cinquanta miliardi di euro l’anno, pari a 3,5% del Pil nazionale. È possibile credere che l’arresto di Messina Denaro cambi qualcosa a fronte di queste cifre? Di certo, questo è il passaggio di consegne ufficiale fra due modi d’intendere l’attività mafiosa. Senza capi, senza punti di riferimento scolpiti nella pietra, una fluidità accompagnata dall’unico dogma granitico: la famiglia. Infinitamente più duraturo del dogma familiare di Cosa Nostra, e a maggior ragione di quello camorristico, che vive perlopiù nelle rappresentazioni cinematografiche e televisive. Per la felicità di chi grazie al suo fascino ci campa, anche dignitosamente. La ‘Ndrangheta s’infiltra ovunque, ma non si fa infiltrare da alcun corpo esterno, è monolitica come lo spirito della tradizione, ed è spietata, ma questa non è una novità. Stringe rapporti con i grandi boss sudamericani, domina il mercato europeo delle droghe, leggere e pesanti, e ha mezzi e metodi per fare ciò che le pare. È notizia di non troppo tempo fa del sequestro di un sottomarino (!) adoperato lungo la traversata atlantica per il trasporto di cocaina. I porti di arrivo prediletti, che un tempo erano quelli di Napoli e Gioia Tauro, oggi si sono spostati nel Nord Europa, Anversa e Amburgo su tutti, a dimostrazione del carattere davvero globalizzato della mafia calabrese. Ancora una volta, l’ultima, ha senso chiedersi: cosa significa l’arresto di Matteo Messina Denaro?
Uno dei fenomeni mafiosi da tenere maggiormente sott’occhio, posto l’assoluto protagonismo della ‘Ndrangheta calabrese, è quello nigeriano. L’occhio mediatico è stato catturato pochi anni fa, quando destò particolare clamore il brutale omicidio di una ragazza nel quartiere San Lorenzo a Roma, da parte di alcuni nigeriani. L’ipotesi allora avanzata, e mai del tutto riscontrata, era quella secondo cui gli autori del delitto fossero in qualche modo connessi a esponenti mafiosi, date anche le modalità con cui il crimine si consumò. I nigeriani operano in maniera del tutto simile ai calabresi, da cui molto hanno preso. Anche loro fanno dell’impenetrabilità, e della fluidità delle loro cellule, la loro forza. Vikings, Black Axe, Maphite, sono alcuni dei nomi dei gruppi autonomi più temuti e conosciuti dalle forze dell’ordine. Pur con una presenza sul territorio italiano di appena centomila connazionali, la mafia nigeriana ha saputo ritagliarsi uno spazio importante nel tessuto criminale del Paese. Oggi gestiscono traffici di prostituzione (per cui sono tristemente noti), di organi, oltre a droga ed estorsione (specie online). La loro presenza è forte sul territorio campano, fanno base a Castel Volturno, poco vicino Napoli. E proprio nelle aree storicamente riconosciute alla Camorra si stanno allargando, approfittando del suo declino. Un declino fatto di un pentitismo crescente, nuove generazioni disposte a tutto per scalzare le vecchie, anche a disconoscere quei riti e codici che hanno tenuto in piedi l’organizzazione per secoli. I nigeriani, come gli ‘ndranghetisti non hanno di questi problemi. Il legame di sangue non teme l’intrusione dell’alieno, ma allo stesso tempo sta dissanguando e desertificando la terra su cui poggiano i piedi. Una terra senza futuro, dove sono in pochi a combattere per offrire opportunità diverse dalla vita criminale. Come aveva previsto il Principe Fabrizio, a comandare sono ora gli sciacalletti. E quello andato in onda negli ultimi giorni è il loro gioco, che noi fingiamo di capire.
Nell’immagine: il quadro trovato nella casa natale di Messina Denaro a Castelvetrano (da la Repubblica)
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