Dalla democrazia alla infocrazia
Il regime dell’informazione capillarmente diffusa da ciascuno di noi e gestita da algoritmi e intelligenza artificiale
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Il regime dell’informazione capillarmente diffusa da ciascuno di noi e gestita da algoritmi e intelligenza artificiale
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Il regime dell’informazione capillarmente diffusa da ciascuno di noi e gestita da algoritmi e intelligenza artificiale
Che la democrazia abbia qualche problema di salute lo sappiamo da tempo. Tra populismi, democrature, democrazie e popoli a cui piace definirsi illiberali, assenteismo elettorale, multinazionali del tecno-capitale che aspirano a governare direttamente il mondo attraverso la digitalizzazione delle masse (lo fanno già, attraverso il capitalismo della sorveglianza e quei dispositivi tecnologici che sono insieme dispositivi normativi del nostro comportamento), i sintomi della malattia sono appunto evidenti e ne abbiamo elencati altri, su queste pagine, lo scorso 20 febbraio.
E anche oggi, come ieri ma più di ieri, è lo stesso demos – cioè tutti noi, a cui spetterebbe, in democrazia, esercitare il potere (crazia) e farne manutenzione – che ha paura della democrazia e fugge di nuovo dalla sua libertà – e rimandiamo a Fuga dalla libertà, di Erich Fromm, al quale aggiungiamo due altri libri che caldamente consigliamo e fondamentali per capire cos’è il potere, cioè Sorvegliare e punire, di Michel Foucault; e di come la democrazia possa essere una finzione/favola raccontata per noi da élite e oligarchie, L’uomo a una dimensione di Herbert Marcuse.
Il demos vive infatti da tempo in una sorta di dissociazione politica e mentale, posto che – ultimo esempio – da una parte pone tra le sue maggiori preoccupazioni l’economia/impoverimento e la crisi climatica (ultimo sondaggio della RSI in vista delle elezioni cantonali), ma poi vota per partiti che nulla fanno e nulla vogliono fare per cambiare modello economico, cambiamento che è invece la condizione necessaria per risolvere quei problemi.
Ma torniamo al conflitto tra tecno-capitale e democrazia. E lo facciamo con l’ultimo libro tradotto in italiano del filosofo coreano-tedesco Byung-Chul Han, dal titolo Infocrazia (Einaudi). Ancora più esplicito è il sottotitolo: Le nostre vite manipolate dalla rete.
Infocrazia, appunto, cioè il potere dell’informazione e dei dati. Tutto dentro al potere del digitale, che è un potere di imprese private che lo producono esclusivamente per fini di profitto privato, espropriando il demos dal potere. E questo genera un drammatico problema per una democrazia che voglia essere invece davvero una democrazia. Perché la democrazia – è il suo pregio e la sua virtù – ha bisogno di tempo per riflettere e poi decidere; necessita cioè di stabilità temporale: tutto il contrario di ciò che producono la tecnologia e il capitale, oggi anche attraverso informazioni sempre più veloci e irriflessive (è una infodemia, per sua natura “resistente alla verità”), da consumare (sono informazioni-merce) sempre più in fretta.
E questa loro instabilità temporale e la loro continua accelerazione frammentano la nostra percezione e la nostra capacità/possibilità di costruzione di un senso delle stesse informazioni, così disorientandoci e riducendoci a oggetti puramente passivi di manipolazione. E su tutto, siamo diventati produttori di dati h24 per il capitale, siamo una miniera da sfruttare, siamo – aggiungiamo – forza lavoro a mobilitazione totale e a pluslavoro totale, cioè produciamo dati lavorando gratis per le piattaforme digitali tecno-capitaliste, così compiendosi la più perfetta forma di alienazione – di marxiana ma anche psicoanalitica memoria.
Siamo apparentemente liberi, scrive Byung-Chul Han, ma siamo incapaci di discutere con gli altri e il nostro condividere in rete – aggiungiamo ancora – è solo una sommatoria di monologhi che cercano followers e like, ma che escludono ogni forma di vero dia-logo (un altro degli elementi base della democrazia, oggi soffocato dalla tecnologia e dalla mercificazione della vita) e di ascolto dell’altro. E pensare che anni fa molti volevano convincerci che la rete era in sé libera e democratica, quando non lo è mai stata e non lo può essere per la contraddizione che non lo consente. Di più, ancora Byung-Chul Han: nel digitale, libertà apparente e sorveglianza concreta coincidono – ma è evidente che una sorveglianza di massa e h24 è intrinsecamente in conflitto con la libertà e la democrazia. Eppure, lo accettiamo – di essere sorvegliati – e con questo siamo noi stessi che svuotiamo la democrazia e la stessa nostra libertà.
Byung-Chul Han lo chiama regime dell’informazione, “quella forma di dominio nella quale l’informazione e la sua diffusione determinano in maniera decisiva, attraverso algoritmi e Intelligenza Artificiale, i processi sociali, economici e politici”. Perché oggi, “decisivo per la conquista del potere non è il possesso dei mezzi di produzione, bensì l’accesso a informazioni che vengono utilizzate ai fini della sorveglianza psicopolitica [psicopolitica è il concetto sviluppato da Han andando oltre la biopolitica di Foucault], del controllo e della previsione dei comportamenti [della psiche, cioè, da qui il neologismo di Byung-Chul Han]. Il regime dell’informazione si accompagna al capitalismo dell’informazione, che evolve in capitalismo della sorveglianza e declassa gli esseri umani a bestie da dati e consumo”. Cioè formattati a produrre sempre più dati e a consumare sempre di più.
Perché “quanti più dati generiamo, quanto più intensivamente comunichiamo, tanto più efficiente diventa la sorveglianza. […] Nel regime dell’informazione gli esseri umani non si sentono sorvegliati, ma liberi. Paradossalmente è proprio il senso di libertà [che trasmettono le nuove tecnologie] a garantire il dominio” del tecno-capitale. A cui ciascuno di noi si sottomette senza che venga in realtà esercitata su di lui alcuna forma di coercizione esterna (anzi e appunto, crediamo di essere liberi), mettendoci volontariamente e liberamente in mostra, diventando liberamente trasparenti alla profilazione del tecno-capitale, che sfrutta la socialità degli umani, restando però ben nascosto, come i suoi profitti, dietro algoritmi e IA.
“La sorveglianza si insinua nella quotidianità sotto forma di convenienza” e di aiuto/assistenza; cioè noi familiarizziamo sempre più con la tecnologia e il profitto è fatto. E non ci ribelliamo, anzi “nella prigione digitale come zona del benessere smart non si solleva alcuna resistenza al regime dominante. Il like esclude qualsiasi rivoluzione”.
Di più: con il suo dataismo “il regime dell’informazione manifesta tratti totalitari. Esso aspira a un sapere totale”. E le vecchie ideologie politiche del ‘900 hanno da tempo ceduto il passo al potere del calcolo matematico. Cioè “il dataismo vuole calcolare tutto ciò che è e che sarà. Le narrazioni [religioni, ideologie, filosofie del passato] cedono il passo ai calcoli algoritmici”. Agendo sul nostro inconscio digitale. Perché “Big Data e intelligenza artificiale” – continua Byung-Chul Han – “consentono al regime dell’informazione di condizionare il nostro comportamento a un livello posto al di sotto della soglia di coscienza”, creando dipendenza (attraverso la dopamina che si attiva ad ogni like che riceviamo) e compulsione (reagiamo come cani pavloviani ad ogni avviso di notifica).
Pessimismo, quello di Byung-Chul Han? Temiamo sia piuttosto l’autentica condizione in cui ci troviamo, come individui e come democrazie. Certo, anche questo suo libro ci aiuta a capirla meglio, questa nostra condizione – e nel libro c’è di più e anche altro rispetto a ciò che abbiamo qui riassunto – e ci invita a resistere. Ma ne siamo capaci, oppure – e chiudiamo con un dubbio – abbiamo ormai superato il punto di non ritorno?
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