Dieci dubbi legittimi sulla vaccinazione, zero buone ragioni per non vaccinarsi
Agli scettici e ai contrari rispondono esperti e scienziati
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Agli scettici e ai contrari rispondono esperti e scienziati
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Agli scettici e ai contrari rispondono esperti e scienziati
Perché rifiutare o rimandare un tale aiuto, con il rischio di favorire una nuova ondata di contagi e la conseguente reintroduzione di regole e limiti alla nostra libertà personale, oltre che alla messa in pericolo della nostra salute?
Abbiamo posto la domanda su diversi canali social e poi sottoposto le dieci ragioni più frequentemente evocate ad alcuni esperti. È proprio sulla base del loro contributo che proviamo a rispondere ai tanti dubbi ancora in circolazione, mostrando che gli argomenti sollevati non hanno alcun fondamento.
È una delle preoccupazioni più frequenti sui vaccini utilizzati in Svizzera, che si basano su una nuova tecnologia fondata sull’impiego dell’RNA, una sorta di “replica” del virus in forma attenuata che induce a generare anticorpi; una tecnica sperimentale che secondo taluni non fornirebbe per ora dati certi a lungo termine.
La risposta degli esperti è pressoché unanime: se ci fossero effetti secondari si manifesterebbero entro tre o quattro mesi dall’iniezione. “Questo margine è ormai ampiamente superato e non vi sono notizie di tali effetti sugli adulti che si sono sottoposti alla vaccinazione negli scorsi mesi” conferma Claire-Anne Siegrist, direttrice del Centro di vaccinologia dell’Ospedale Universitario di Ginevra.
Dopo più di tre miliardi di dosi somministrate nel mondo in circa dodici mesi e con una farmacovigilanza mondiale rafforzata, eventuali effetti secondari a lungo termine si sarebbero manifestati da tempo. Visto che così non è, questi timori sono infondati.
Del tutto errato. “Gli effetti secondari del virus sono ben più importanti e duraturi di quelli del vaccino, anche fra i giovani!” assicura Claire-Anne Siegrist. I postumi del Covid, o del Covid lungo, che riguardano tutti i malati, sono più debilitanti degli effetti secondari benigni dei vaccini.
Eppure il messaggio non sembra passare, poiché “attualmente le persone ospedalizzate sono adulti non vaccinati fra i 20 e i 60 anni” osserva Alessandro Diana, pediatra e specialista in malattie infettive all’Ospedale Universitario di Ginevra.
Coloro che si credono protetti diventano così la popolazione vulnerabile. “C’è in questo caso un’ipotesi che potrebbe trasformarsi in pericolosa realtà. Vi sono persone che preferiscono il ‘rischio subìto’ (essere infettati dal virus) al rischio auto-inflitto (avere effetti secondari causati dal vaccino) e questo può tramutarsi nella convinzione che sia meglio non vaccinarsi anche se si sa che la malattia porta con sé maggiori pericoli”, è l’analisi di Samia Hurst, specialista in bioetica, vice-presidente della task force Covid-19.
Di fronte agli effetti del Coronavirus il vaccino non costituisce, è vero, una barriera invalicabile. Ma ne riduce molto, molto nettamente i rischi. “Con i vaccini citati, che chiamiamo RNAm, la protezione contro l’infezione è dell’ordine del 95% per la variante Alpha e dell’88% circa per la variante Delta, come noto più contagiosa” sottolinea Alessandro Diana. Stando a riscontri ottenuti molto recentemente a Singapore e in Israele, è vero che la percentuale di protezione per la variante Delta sarebbe un po’ inferiore, attestandosi fra il 65% e il 69%. Ma sono dati non ancora confermati e pubblicati.
La vaccinazione riduce comunque anche fortemente la possibilità di essere colpiti da una forma grave della malattia così come di trasmetterla. “È ora chiaramente dimostrato che se comunque ci si ammala, nella stragrande maggioranza dei casi avviene in una forma benigna e che la quantità di virus nel naso è di molto inferiore, il che diminuisce di gran lunga la possibilità di trasmettere la malattia”, precisa Claire-Anne Siegrist.
L’esperienza acquisita in Israele e in Gran Bretagna, due Paesi in cui la popolazione è largamente vaccinata, appare molto incoraggiante: benché i casi accertati di Covid siano aumentati in seguito all’allentamento delle restrizioni, si tratta in grande misura di casi benigni, con un decorso minimo.
In Svizzera la proporzione esatta di personale ospedaliero e delle case di cura per anziani che rifiuta di farsi vaccinare contro il Covid-19 non è nota. Diversi sondaggi fanno immaginare che possa trattarsi di una posizione né marginale né predominante. “In linea generale il fronte di personale sanitario dubbioso di fronte al vaccino è analogo quantitativamente a quello dei pazienti, che varia, a seconda degli studi, dal 5 al 30%”, indica Alessandro Diana.
“Non bisogna credere che tutti gli operatori sanitari siano esperti di vaccini”, rileva Samia Hurst. “Fra il personale curante c’è un ampia fetta di operatori che non hanno alcuna dimestichezza con le malattie infettive e ne sanno poco poiché sono comunque molto sollecitati nel lavoro ospedaliero e hanno poco tempo per informarsi e approfondire il tema. Di conseguenza, si pongono le stesse questioni dei pazienti e magari le condividono”.
Per i due esperti da noi interpellati si tratta certamente di una questione da affrontare al più presto, iniziando quanto prima ad organizzare corsi di informazione per il personale curante, in modo che prenda confidenza con il tema ed acquisti fiducia negli effetti della vaccinazione.
I vaccini contro il Covid sono stati sperimentati e sviluppati in maniera straordinariamente veloce. “È la mobilitazione inedita dei settori pubblico e privato di fronte alla pandemia ad aver prodotto un risultato eccezionale, ottenendo in un anno risultati che finora sarebbero stati frutto di ricerche di un decennio”, spiega Alessandro Diana.
Gli Stati come mai prima hanno ampiamente finanziato le ricerche dei laboratori scientifici, mentre aziende specifiche di produzione dei farmaci sono sorte molto rapidamente sin dai primi incoraggianti risultati delle ricerche. “Di fronte a questo virus, le regole del gioco finanziario sono state stravolte, ma non quelle delle procedure scientifiche” aggiunge Samia Hurst.
È stato svolto ogni possibile test sui vaccini e le agenzie incaricate di stabilire la loro omologazione (come Swissmedic, per esempio) per guadagnare tempo ne hanno valutato i risultati man mano che venivano pubblicati senza attendere la conclusione delle ricerche.
In queste condizioni, soltanto coloro che si sono volontariamente sottoposti a test clinici per sperimentare i vaccini possono essere considerati delle “cavie”. “I primi 100.000 volontari hanno accettato di assumersi dei rischi solo parzialmente preventivabili. Non possiamo che essere loro estremamente grati”, sottolinea Claire-Anne Siegrist.
Gli interessi finanziari sono effettivamente importanti nel caso dei vaccini, ma non lo sono forse anche nella produzione, per esempio, del paracetamolo? Venduto in Svizzera dal 1959, l’antidolorifico più utilizzato nel Paese ha fornito nel 2019 grandi introiti, benché nel 2018, nell’indifferenza generale, sia stato all’origine di 1200 casi di intossicazione.
Perché? Perché l’acquisto di prodotti di prima necessità, come gli alimenti o i medicamenti, si fonda su un principio di fiducia. E perché regni la fiducia, sono anche state create delle specifiche agenzie di controllo. “Abbiamo meccanismi di sorveglianza che hanno già mostrato la loro efficacia. Swissmedic, per esempio, opera in modo indipendente ed è fondamentale che sia così”, assicura Samia Hurst.
Chi sostiene questa tesi, davvero, dimostra grande miopia: verrebbe da dire che il tampone se lo infila nell’occhio. “Le precauzioni individuali, per quanto importanti, non hanno impedito la seconda e la terza ondata del virus”, ricorda Claire-Anne Siegrist. Il fatto che il virus si trasmetta per via aerea ha reso insufficiente la protezione delle mascherine chirurgiche e i rischi sono oggi ancora maggiori con la variante Delta, che è del 60% più trasmissibile della variante Alpha.
“Tutti saranno confrontati prima o poi con il coronavirus. A ciascuno di noi la scelta se questo avverrà infettandosi e ammalandosi o attraverso la vaccinazione”, riassume Alessandro Diana prima di aggiungere ironicamente: “Quale delle due forme di esposizione vi sembra più pericolosa?”.
In parte è vero. “Chi ha contratto il Covid è meno esposto al rischio di infettarsi di nuovo e di avere complicazioni rispetto a chi non è mai stato infettato né si è vaccinato”, conferma Alessandro Diana. Diversi studi hanno dimostrato che gli anticorpi anti-Covid restano attivi nell’organismo anche per diversi mesi dopo l’infezione.
Ma attenzione: questa protezione potrebbe rivelarsi in certi casi insufficiente a evitare una nuova infezione, in particolare con la variante Delta, più contagiosa, che sta ormai diventando dominante in Svizzera. Uno studio recente pubblicato dalla rivista Nature mostra che sei mesi dopo l’infezione la capacità degli anticorpi di neutralizzare la variante Delta si riduce da quattro a sei volte rispetto a quanto avviene con la variante Alpha. Per questo alle persone che hanno già contratto la malattia si raccomanda di farsi somministrare comunque una dose di vaccino al fine di rafforzare l’immunità acquisita dopo l’infezione.
Con la vaccinazione sono possibili reazioni allergiche gravi, choc anafilattici che necessitano interventi d’urgenza. “Si tratta, comunque, di casi molto rari, che insorgono all’incirca in un caso su un milione, soprattutto su persone che hanno forme pregresse di reazioni anafilattiche nei confronti di componenti specifici del vaccino, come ad esempio il polietilene glicolo”, spiega Alessandro Diana.
Ogni persona cui viene praticata la prima vaccinazione è tenuta sotto osservazione per un certo periodo proprio per verificare che non abbia reazioni allergiche. Se ciò avviene, si interviene immediatamente somministrando una dose di adrenalina. “Tutte le persone che hanno avuto questa forma di complicazione post-vaccinale sono state trattate in questo modo e nessuna ne è morta”, sottolinea ancora il vaccinologo.
Va notato che numerosi farmaci possono scatenare reazioni allergiche gravi. “Il rischio di una reazione allergica è dunque più alto nel caso in cui si contraesse la malattia, che andrebbe poi combattuta con diversi medicamenti”, mette in guardia Claire-Anne Siegrist.
Attenzione a simili calcoli azzardati. Il processo completo di immunizzazione dura un mese e mezzo: alle quattro settimane che devono passare tra le due dosi si devono aggiungere due settimane dopo la seconda dose perché la protezione sia completa. Nel frattempo, la variante Delta non si prende però le vacanze e infetterà un gran numero di persone non immunizzate. “Il miglior calcolo da fare sarebbe dunque quello di sottoporsi alla prima iniezione prima di partire e alla seconda dopo che si è tornati, anche se magari fra le due passa un po’ più di tempo del mese previsto solitamente”, consiglia Claire-Anne Siegrist.
Articolo di Fabien Goubet e Pascaline Minet pubblicato da “Le Temps” il 15 luglio 2021. Adattamento e traduzione di Enrico Lombardi. Link a ulteriori approfondimenti si trovano nel testo originale (in francese)
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