Dopo la nuova sentenza USA sull’aborto: le questioni rimaste sul tavolo
Per ripensare ai grandi e complessi interrogativi legati all’interruzione della gravidanza si può anche rileggere Aristotele
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Per ripensare ai grandi e complessi interrogativi legati all’interruzione della gravidanza si può anche rileggere Aristotele
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Per ripensare ai grandi e complessi interrogativi legati all’interruzione della gravidanza si può anche rileggere Aristotele
Davvero non è possibile gioire per la decisione della Corte Suprema statunitense dello scorso 24 giugno, con la quale è stata annullata la ben nota sentenza “Roe vs Wade” del 1973 sulla liceità dell’aborto. Quella giunta d’oltreoceano a inizio estate non è una buona notizia perché non affronta veramente un problema ma lo demanda ai piani più bassi della gerarchia federale: una scelta che, lungi dall’essere un atto di vera democrazia, in realtà non farà che aumentare – e lo si sta già vedendo – un far west legislativo che favorirà inevitabilmente un “turismo dell’aborto” (brutto termine ma si capisce) tra gli Stati più conservatori e quelli più progressisti della Confederazione americana.
Ho vissuto sufficientemente a lungo negli Stati Uniti per tastare con mano quanto sia da tempo esasperato e incancrenito il dibattito attorno alla questione, oramai privo di qualunque confronto dialettico e ridotto a un mero scontro di fronti contrapposti: da un lato i “pro life” che sventolano crocifissi e bambolotti sanguinanti e gridano agli assassini, dall’altro i “pro choice” che non accettano di affrontare l’argomento da un punto di vista diverso da quello strettamente connesso ai diritti femminili e al libero utilizzo del proprio corpo. Un dialogo tra sordi (con la clava) che ha sempre covato nervosamente sotto la cenere e che negli ultimi tempi è riemerso con particolare virulenza.
Tutto ciò potrebbe avere un senso soltanto se favorisse in qualche modo il rilancio del dibattito su un tema troppo importante per illuderci di averlo risolto già nel 1973 e con le leggi che ne erano seguite. Per provare a inquadrare la questione proporrei allora di partire da un passo della Politica di Aristotele, un testo che, pur con i dovuti distinguo, assieme alla Repubblica di Platone sta alla base di gran parte del nostro modo di ragionare attorno alla società e al suo futuro: «sia legge di non allevare nessun bimbo deforme […]: si deve fissare un limite alla procreazione e se alcune coppie sono feconde oltre tale limite, bisogna procurare l’aborto, prima che nel feto siano sviluppate la sensibilità e la vita, perché sono la sensibilità e la vita che determinano la colpevolezza e la non colpevolezza dell’atto» (Politica, 1335b).
L’argomentare stringente di Aristotele, che preso dal desiderio di sviscerare fino in fondo le questioni non teme di sconfinare nel cinismo, mette il dito su almeno tre punti dolenti: quando inizia veramente la vita, se l’aborto debba avere conseguenze penali oppure no e, terzo, gli inevitabili legami con una prospettiva eugenetica. Le leggi attualmente in vigore in gran parte del mondo, più o meno progressiste a seconda dei casi, rispondono soltanto alla seconda domanda, glissano un po’ sulla prima (da cui la seconda comunque dipende) e non affrontano del tutto la terza. Si potrebbe facilmente obiettare che non spetta al legislatore affrontare questioni morali tanto complesse. È pur vero che il dibattito presso l’opinione pubblica, nonostante tutto, continua a languire.
Chiedersi quando inizino in un feto “la sensibilità e la vita”, come dice Aristotele, non è domanda di minore importanza, perché da questa dipende la concezione stessa del feto come un futuro cittadino della società, cioè il detentore di tutta una serie di diritti di cui la (speranza di) vita dovrebbe essere proprio il primo, a inaugurare gli altri che seguiranno (motivo per cui sono persuaso che l’aborto non sia soltanto un argomento “femminile” e che tutti, compresi i cittadini di sesso maschile o le donne sterili, debbano e possano esprimersi in merito). Fissare una settimana di gestazione a partire dalla quale si può cominciare a parlare di “vita”, e perciò a ragionare in termini penali in caso di interruzione della stessa (Aristotele parla di “colpa”, ma la sua è una riflessione morale più che legislativa), è forse l’unica via percorribile ed è stata giustamente seguita. Mi chiedo però se tale questione possa essere risolta una volta per tutte oppure se non debba, regolarmente, essere riposta sul tavolo, con un occhio di riguardo ai progressi della medicina che oggi riescono a garantire la sopravvivenza di feti del peso di 500-600 grammi e di poche settimane di sviluppo embrionale. In tutta sincerità preferirei sapere che la domanda rimane aperta, piuttosto che saperla chiusa per sempre.
Ancora più scomoda, e perciò raramente affrontata, è l’implicazione della pratica dell’aborto legale in prospettiva eugenetica, alla quale partecipa tutta la società tramite la costante promozione dei corpi perfetti, l’illusione del superamento di ogni malattia e non da ultimo politiche aziendali e professionali che troppo spesso scoraggiano le gravidanze, specie nelle donne che sarebbero proprio nell’età più adatta per portarle a conclusione. Possiamo dire di essere del tutto esenti da queste dinamiche?
Sono interrogativi che ci tormentano e che chiedono, con la pacatezza e la ragionevolezza suggerita da questioni di natura epocale, un dibattito adatto alla loro reale portata.
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