Quando “xe pèso el tacòn del buso”
Se l’obiettivo era far cessare la guerra sono veramente servite le sanzioni?
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Se l’obiettivo era far cessare la guerra sono veramente servite le sanzioni?
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Se l’obiettivo era far cessare la guerra sono veramente servite le sanzioni?
A sei mesi dall’inizio della guerra, nonostante le sanzioni e gli embargo (ultimi saranno quelli dell’Ue sul petrolio entro fine anno), la Russia ha continuato ad esportare tutto quanto poteva (o voleva) in materie prime energetiche, fonte essenziale delle entrate fiscali per il Cremlino (e, quindi, per il sostegno alla guerra o… persino per l’acquisto di droni dall’Iran e di proiettili e razzi dalla Corea del Nord, un toccasana per quelle economie in difficoltà… per altre sanzioni e maggiore benevolenza nei confronti della Russia).
I redditi del petrolio, dei prodotti petroliferi, del gas e del carbone hanno raggiunto i 158 miliardi di euro tra il 24 febbraio e il 24 agosto secondo i calcoli del Centre for Research on Energy and Clean Air (Crea), centro di ricerca serio, attendibile, in uno studio appena pubblicato martedì 6 settembre. Ora, le tasse sugli idrocarburi rappresentano “più del 40 per cento del bilancio annuale della Russia”. Esse avrebbero portato nelle casse di Putin 43 miliardi di euro in soli sei mesi.
Calcoli accertati dicono che la guerra in Ucraina costa circa 500 milioni di euro al giorno al Cremlino: la fattura totale in sei mesi si avvicinerebbe ai 100 miliardi. Le esportazioni di materie prime energetiche sono l’arma principale, per niente eliminata ma mantenuta dagli stessi avversari, nelle operazioni militari russe. La quale arma, si potrebbe sostenere, quasi pareggia paradossalmente i miliardi di dollari di armi inviate al presidente ucraino Zelensky (buon affare, tra l’altro, per la maggiore fornitrice che è l’industria dell’armamento statunitense, così foraggiata per fini umanitari dall’Amministrazione, che vi ha già inviato armi per 15 miliardi di dollari e sta aggiungendone altri due).
Il caso del gas è forse il più emblematico e per certi versi anche il più paradossale. Le esportazioni di gas mediante gasdotto sarebbero diminuite. Più per la decisione di Mosca di chiudere di quando in quando, di solito con una scusa tecnica, i rubinetti. Vera arma “politico-bellica”, come Putin ha fatto chiaramente intendere negli scorsi giorni al “forum economico” di Vladivostok (minacciando la cessazione di ogni rifornimento di idrocarburi qualora si plafonassero i prezzi, come vorrebbe fare l’Ue). Arma per creare divisione e panico economico, che gli europei definiscono “sistema ricattatorio” e gli americani “prova della debolezza di Putin”.
Anche qui si cade in un altro paradosso politico-economico. Le sanzioni con tentativi di embargo sul gas, di cui non si può però fare a meno, da un lato; la minaccia di chiudere i rubinetti e diminuire l‘offerta, d’altro lato, fanno schizzare in alto il prezzo del gas. In un anno esatto (agosto 2022) quel prezzo si è infatti moltiplicato per tredici. Il risultato: Gazprom incassa altrettanto denaro vendendo il gas all’Unione europea di quanto incassava nel primo semestre del 2021 nonostante il volume di vendite sia stato diviso per quattro per le sanzioni e sia stata persino costretta a bruciarne le eccedenze.
È vero, la sospensione di forniture di gas via Nord Stream si traduce in una perdita di entrate per Gazprom, perché l’ulteriore aumento dei prezzi che ne consegue non è sufficiente a compensare il calo del volume venduto. Può però darsi che per Putin, che promette di essere più duro, ci sarà un tornaconto politico: creerà maggior scompiglio economico e sociale in Europa. Basta guardare a ciò che succede in Italia (o a ciò che si prospetta in Germania e Francia e in Gran Bretagna) per rendersi conto che forse quelle di Putin, almeno per l’Europa, non sono solo vanterie di chi sta affogando, come pretendono la Cia o Biden. Soprattutto per l’Europa diventano… armi di distruzione sociale.
Per il petrolio il caso è diverso. L’embargo europeo non entrerà in vigore prima di dicembre, probabilmente dopo aver ben rifornito le scorte. Si è sostenuto che le esportazioni verso l’Europa sono di fatto diminuite ma che siano state subito abbondantemente compensate da altri: l’India e la Cina, ma anche l’Egitto e la Turchia, che hanno aumentato di molto le importazioni, approfittando anche dei ribassi che la Russia concede per smaltire la sua produzione; ribassi che sono però anche qui da relativizzare, aggirandosi pur sempre il petrolio (Brent) attorno ai 100-95 dollari il barile (71 un anno fa). Sta di fatto che le esportazioni russe sono sempre aumentate, al ritmo di 3.41 milioni di barili al giorno (settimana sino al 19 agosto, contro 3.24 milioni le settimane precedenti; in quella sola settimana, calcola l’agenzia Bloomberg, i redditi di Mosca sono aumentati di 183 milioni di dollari per il corso del petrolio in ascesa).
Ma poi non è vero che le esportazioni verso l’Europa siano diminuite. Due settimane fa le esportazioni per via marittima di petrolio russo verso il Vecchio Continente hanno raggiunto il livello più alto dallo scorso mese di aprile, come ha indicato ancora la stessa agenzia americana Bloomberg che “scruta” tutti i movimenti petroliferi. Nel Mediterraneo, nel nord del continente, nella regione del Mare Nero, dovunque le forniture sono in aumento. Arrivano soprattutto in Italia, Turchia, Olanda, Romania, Bulgaria. Due settimane fa, il 50 per cento (1.71 milioni di barili) delle esportazioni russe sono partite per l’Asia e il 45 per cento per l’Europa (1.55 milioni di barili).
È come se i paesi europei cercassero di fare il pieno prima dell’inverno, prima della fine dell’anno, “quando ciò non sarà più tollerato” (aggiunge Bloomberg), ovvero quando il petrolio russo sarà sotto nuove sanzioni, tanto in Europa come in Svizzera a causa della guerra in Ucraina.
Ciò che dimostra, in ultima analisi, tre cose: innanzitutto che di quel petrolio, a quanto risulta, non si riesce fare a meno, anche perché l’Arabia Saudita, per fare più soldi, ha ridotto l’offerta; in secondo luogo che ognuno si salva come può, per evitare il peggio (e forse si toglie qualche scrupolo portando armi in Ucraina); in terzo luogo che sulle sanzioni corre quindi qualche ipocrisia e non è certamente un caso se l’Europa, fortemente dipendente e in crisi energetica, ha ritardato con qualche speranza recondita a fine anno la sanzione sul petrolio e non riesce neppure a intendersi sul plafonamento del prezzo di gas e petrolio (Putin minaccioso).
Secondo il Fondo Monetario Internazionale (FMI) l’economia russa dovrebbe essere meno penalizzata di quanto ci si attendeva dalle sanzioni internazionali: si pronosticava un crollo dell’8.5 per cento del prodotto interno lordo nel 2022, si arriverà forse a un 6 per cento. “Le esportazioni di idrocarburi e di prodotti non energetici si son mantenute a un livello migliore di quanto ci si attendeva”, constata sempre il FMI. Che continua: “diversi indicatori finanziari possono ugualmente lasciar pensar che l’economia russa resista meglio del previsto alle sanzioni. La sua esclusione dalla rete SWIFT [la rete di istituti bancari che garantisce la sicurezza delle transazioni finanziarie, da cui fu esclusa, per sanzione, la Russia – ndr] non ha fatto troppo male alla Russia, poiché tutte le banche non ne furono escluse, come Gazprombank, avendo l’Europa sempre bisogno del gas russo”.
È vero, c’è un documento del governo russo (ripreso e pubblicato martedì scorso da Bloomberg) che non manca di indicare previsioni severe per i prossimi mesi. Il blocco totale dell’import può generare veri e propri sconquassi economici e sociali nel settore farmaceutico, l’aviazione civile, le telecomunicazioni, l’allevamento e l’agricoltura, anche con probabili emigrazioni di specialisti e persone altamente qualificate.
Sta di fatto che dei due obiettivi che si volevano raggiungere con le sanzioni- generare nel breve periodo una crisi di liquidità in grado i fermare l‘azione bellica russa; colpire quindi la capacità produttiva del paese per rendere meno probabili altre invasioni tipo-Ucraina- si dovrebbe avere la sincerità di ammettere che il primo lo si è mancato e che il secondo, stando ai rapporti occidentali (FMI e Bloomberg), ha perlomeno trovato una resistenza che non ci si poteva immaginare per la flessibilità della Russia in campo monetario economico e militare.
Se quindi (come continua ancora a sostenere, quasi disperato, papa Bergoglio) l’unico vero e prioritario obiettivo è quello di fermare la guerra, che pare invece destinata a non fermarsi ancora a lungo, forse bisognerebbe avere il coraggio di dire che le sanzioni (come si è già dimostrato in altri casi) smuovono poco, anzi incattiviscono e si avvitano su sé stesse. Ed è allora ancora più tragico vedere che la via diplomatica sembri ormai abbandonata o lasciata completamente al presidente turco Erdogan (il quale, almeno per il grano, qualcosa è riuscito a cavare).
Ciò che rischia di essere ancora più tragico e assurdo è che tutto si riverserà presto su tutta l’Europa (e molto meno o niente sugli Stati Uniti). Perché l’Europa finisce per trovarsi con una crisi energetica, che sta generando pericoloso panico. Perché la crisi energetica (con la guerra in Ucraina) è in massima parte causa di un altro grave problema, l’inflazione (o l’aumento generalizzato dei prezzi), la quale porta, come rimedio di dottrina tradizionale ma non sempre di efficacia reale, al freno dell’attività economica con l’aumento dei tassi di interesse o del costo del denaro e, come tutti sembrano ormai pronosticare come conseguenza, ad una recessione generalizzata (si veda la chiara e completa esposizione di Sergio Rossi nell’intervista di Naufraghi/e su questi problemi). Appaiono già tensioni sociali e politiche, nei paesi dell’Ue, in Gran Bretagna, in Svizzera, che stanno favorendo maledettamente la destra più retriva ed estrema, che dentro sa navigarvi. E si prospettano tempi grami.
Ora se è vero, come ha scritto intelligentemente qualcuno (v. Luigi De Biase, su “Il Manifesto” di venerdì scorso) che “verificare il rapporto tra sanzioni e guerra non è tradimento”, forse, per le conseguenze non solo economiche, ma soprattutto sociali o di rischio per la stessa democrazia, ci si può chiedere, con un famoso e classico detto veneziano spesso richiamato anche dai grandi politici: “xe pèso el tacon del buso” (è peggio la toppa del buco, insomma se il rimedio non faccia più danno di quello a cui si pretendeva di rimediare).
O ritornare a credere che ciò che conta, soprattutto, è porre fine alla guerra, più che continuare ad aspettare, irrealisticamente, che qualcuno la vinca o si dichiari sconfitto. Anche perché aspetteremmo molto a lungo.
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