Terzo Diario della crisi (seconda parte)
La Fed contro la classe operaia - In un momento di eccezionale instabilità dei mercati, la Banca Centrale americana si interroga su una nuova manovra di innalzamento dei tassi, che la BCE ha già adottato
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La Fed contro la classe operaia - In un momento di eccezionale instabilità dei mercati, la Banca Centrale americana si interroga su una nuova manovra di innalzamento dei tassi, che la BCE ha già adottato
• – Christian Marazzi
Sulla scia di Federer strani svizzeri crescono e forse ci definiscono (per eccesso)
• – Libano Zanolari
Forte produttore di di materie prime, il Paese dell’Asia Centrale va alle urne per un’ulteriore svolta democratica che lo avvicini all’Europa: crescono gli interessi economici svizzeri
• – Donato Sani
Una razionalità irrazionale ed ecocida impone di produrre e di consumare sempre e sempre di più, di crescere sempre di più ma non per soddisfare i nostri bisogni ma quelli del profitto del tecno-capitale
• – Lelio Demichelis
Quando si confonde la volontà di far dire con altre parole a un testo quello che il suo autore voleva dire con quella di far dire allo stesso testo ciò che il testo non dice ma che ci piacerebbe che dica. Di Matteo Ferrari
• – Redazione
Crimini di guerra e mandato di cattura del Tribunale internazionale per lo zar russo, alla vigilia dell’arrivo dell’alleato cinese a Mosca
• – Aldo Sofia
• – Franco Cavani
Ma non è detto che la forte riduzione delle esportazioni di gas russo minerà a breve il potenziale bellico del Cremlino in Ucraina
• – Yurii Colombo (da Mosca)
“Do you remember Lehman Brothers?” Dal crollo della Silicon Valley Bank al crac di Credit Suisse, si conferma che il rischio contagio in Europa è reale e grave, mosso da una serie di pratiche bancarie perlomeno discutibili
• – Christian Marazzi
Una volta di più la parola spetta a chi non è stato ascoltato: esperti, docenti e famiglie
• – Fabio Dozio
La Fed contro la classe operaia - In un momento di eccezionale instabilità dei mercati, la Banca Centrale americana si interroga su una nuova manovra di innalzamento dei tassi, che la BCE ha già adottato
Nel periodo elettorale i contributi di candidate e candidati sono benvenuti sulla nostra zattera secondo queste regole
Il fallimento della Svb, se da una parte si iscrive nella crisi del settore dell’high tech digitale con l’ondata di licenziamenti che da mesi ormai attraversa l’intero settore (vedi il Diario di gennaio); se, d’altra parte, si spiega per alcune specificità della banca stessa (monocoltura, il suo essere prevalentemente una banca di gestione e investimento dei depositi dei suoi clienti); se, ancora, sconta le conseguenze della deregolamentazione eccessiva di trumpiana memoria, che ha abbassato non poco il livello di guardia delle autorità di vigilanza; se, infine, non sembra paragonabile alla crisi sistemica della Lehman Brothers del 2008 e ai suoi effetti macroeconomici globali, nondimeno evidenzia un serio problema per quanto attiene la strategia monetaria della Fed come di tutte le banche centrali.
La reazione dei mercati non permette ancora di capire la portata della crisi, la sua profondità e estensione. Per questo occorreranno ancora alcuni giorni. Di sicuro la paura del contagio, così come le rassicurazioni delle autorità monetarie e politiche, contribuiscono ad acuire la volatilità dei mercati, peraltro già alquanto volatili prima dello scoppio della crisi [e le vicende del crac del Credito Svizzero ne sono una prova tangibile, n.d.r.].
Una cosa è però apparsa chiara sin da subito: i mercati e gli investitori dimostrano di volere che la banca centrale freni, addirittura congeli la sua politica restrittiva basata sugli aumenti dei tassi già previsti per i prossimi mesi, ribaditi con fermezza da Joe Powell solo 5 giorni prima del crack della Svb [e confermati, per ora, dalle decisioni prese dalla BCE, n.d.r.] Si dava per certo un prossimo aumento dei tassi dello 0,5%, ma la corsa degli investitori agli acquisti dei Buoni del Tesoro a due anni ha fatto precipitare il rendimento sotto il 4% in un solo giorno (avevano superato il 5% esattamente una settimana fa, lasciando presagire una recessione imminente), un calo record mai visto dal 1987.
Nei mesi scorsi, i mercati finanziari auspicavano che l’economia entrasse in recessione, perché in tal caso le autorità monetarie abbassano i tassi di interesse per frenarne gli effetti e la durata. La riduzione dei tassi d’interesse, cioè del costo del denaro, per i mercati finanziari significa la ripresa degli investimenti speculativi, e quindi delle rendite finanziarie.
Il fatto è che la recessione non è scoppiata, c’è stato anzi un forte aumento dell’occupazione, un aumento medio del potere d’acquisto e della capacità di indebitamento dei consumatori americani[1], il tutto accompagnato da un processo disinflazionistico (pare che Powell abbia pronunciato la parola disinflazione ben undici volte nella sua conferenza stampa d’inizio febbraio)[2].
Per i mercati questi dati sono la prova che la spinta espansiva convive con un’inflazione in declino, e quindi c’è margine per una riduzione dei tassi d’interesse.
Per la Fed, invece, gli stessi dati positivi sono la dimostrazione di una possibile rincorsa salari-prezzi che compromette la battaglia contro l’inflazione. Pochi giorni dopo aver parlato di disinflazione, ecco cosa dice lo stesso Powell: “Dovremo fare più aumenti dei tassi e poi dovremo guardarci attorno a vedere se ne abbiamo fatti abbastanza” (Economic Club, Washington, 7 febbraio).
Ora, come è stato dimostrato da più parti, non solo la crescita dei salari è rallentata, ma laddove vi è stato un aumento è perché sono aumentate le ore settimanali di lavoro (un chiaro aumento del plusvalore assoluto)[3]. Negli ultimi due anni i salari sono cresciuti più lentamente dell’inflazione e i salari reali aggregati sono di fatto diminuiti. Secondo il Washington Post, la quota attuale dei redditi da lavoro sul PIL, scesa al 56%, è tornata al livello del 2014.
Bisogna quindi escludere categoricamente il rischio di una “spirale prezzi-salari” in stile anni 1970, mentre bisognerebbe parlare di una “spirale prezzo-prezzo, “in cui i prezzi finali sono aumentati più degli aumenti dei prezzi dei fattori di produzione”. A dirlo è Lael Brainard, già vice presidente della Fed, ora nominata da Biden a capo del National Economic Council (inflazione da profitti, insomma. Vedi il Diario di febbraio 2023).
C’è quindi da chiedersi perché la Fed non abbia dato segni di cedimento con la sua politica monetaria anti-inflativa, perlomeno fino alla crisi della Silicon Valley Bank dello scorso 10 marzo. Nel momento in cui scrivo la Fed non si è espressa su cosa farà con i tassi di interesse nei prossimi mesi. È possibile che, per calmare (“stabilizzare”) i mercati, decida di aumentarli di un solo 0,25%, piuttosto che di mezzo punto percentuale come era programmato. Vedremo.
Si può sostenere che il problema di fondo della politica della Fed è che è monetarista, tutta incentrata sull’offerta di moneta, e non, come dovrebbe essere, sull’andamento della domanda di moneta. Si può aggiungere che si tratta di una politica basata su modelli econometrici che si ispirano alla “curva di Phillips”, secondo cui esiste una relazione inversa tra tasso di inflazione e tasso di disoccupazione, e quindi, dato che oggi la disoccupazione è ai suoi minimi storici, i prezzi non possono che crescere. Tutto vero, salvo che la Fed, perlomeno dai tempi in cui Janet Yellen era presidente, si è dotata di una rete di sensori sul territorio che le permette di “avere il polso” del paese reale, molto più di quanto si creda.
Forse la risposta sta nel fatto che nell’ultimo anno (2022) vi è stato un forte aumento del numero di scioperi e di interruzioni del lavoro. “L’anno scorso ha visto un aumento del 52% del numero di interruzioni del lavoro rispetto all’anno precedente, con il 60% in più di lavoratori che hanno partecipato alle interruzioni.” Se confrontato con la statistica delle lotte nel periodo fordista, si può avanzare l’ipotesi che nel 2022 si sia innescato un ciclo di lotte operaie che sembrava definitivamente irripetibile a partire dagli anni 1980[4], gli anni della controrivoluzione liberista.
Si aggiunga che per la Fed gli oltre dieci milioni di posizioni aperte delle aziende (vacancies), che non trovano i dipendenti per riempirle, è la prova che il mercato del lavoro è troppo stretto e preme sui costi delle imprese[5]. Le “grandi dimissioni” sono un fenomeno che sfugge a tutti i modelli econometrici della Fed (e non solo), un “enigma” che, come le lotte operaie per migliori condizioni di vita, va combattuto, estirpato. Anche a costo di andare contro il capitale.
Seconda parte del contributo pubblicato anche dai siti “Effimera.org” e “Machina”
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[1] Quando si parla di crescita dei consumi occorre sempre distinguere tra consumi produttivi e improduttivi, tra salari, rendite parassitarie, profitti e sovraprofitti. Negli ultimi due anni sono soprattutto questi ultimi che sono particolarmente cresciuti.
[2] Riprendo qui di seguito un articolo molto documentato di Nicola Capelluto, “Enigma inflazione”, apparso su Lotta comunista nel mese di febbraio 2023.
[3] L’aumento degli affitti pesa per metà dell’inflazione totale degli ultimi mesi e assorbe buona parte degli incrementi salariali.
[4] Vedi Alex N. Press, “Strikes were up significantly last year”, in Jacobin, 2 febbraio 2023. I numeri esatti: 272 interruzioni del lavoro nel 2021 sono cresciute a 424 nel 2022; Quel numero consiste di 417 scioperi e sette serrate. Mentre circa 140.000 lavoratori hanno preso parte a un’interruzione del lavoro nel 2021, 224.000 lavoratori hanno fatto lo stesso l’anno scorso. Gli anni 1950 hanno avuto una media di 352 grandi interruzioni di lavoro all’anno che coinvolgono 1,6 milioni di lavoratori. Incredibilmente, l’intero periodo di tempo dal 1950 al 1970 ha avuto in media oltre 300 grandi interruzioni di lavoro all’anno (quasi una al giorno!) che coinvolgono oltre 1,4 milioni di lavoratori all’anno. Tuttavia, gli anni 2010 avevano solo una media di circa 15 all’anno che coinvolgeva 150.000 lavoratori. L’enorme calo nel 1980 è avvenuto nell’era del fallito sciopero PATCO [Professional Air Traffic Controllers Organization], che ha portato al termine “Sindrome PATCO“, che descrive la paura dei sindacati di scioperare e perdere.
[5] Salvo poi disperarsi quando mezzo milione di salariati è assorbito in un mese, perché questo per la Fed significa un aumento della pressione sui consumi.
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