Dottrina Mitterrand e caso Baragiola
Dopo l’arresto a di sette ex terroristi di Lotta Continua e BR rifugiatisi in Francia da decenni e latitanti per l’Italia
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Dopo l’arresto a di sette ex terroristi di Lotta Continua e BR rifugiatisi in Francia da decenni e latitanti per l’Italia
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Fine della ‘dottrina Mitterrand’. Cioè della norma che per quattro decenni ha consentito alla Francia di ospitare terroristi italiani già condannati, spesso all’ergastolo, nella Penisola. I sette arresti avvenuti ieri all’alba a Parigi (fra ex Lotta Continua ed ex BR) sanciscono appunto la conclusione di una pagina storica e controversa.
Alla base della scelta dell’allora presidente socialista francese (si disse in accordo con Bettino Craxi), formalmente la decisione di non riconoscere sentenze contro imputati latitanti; in realtà i cosiddetti anni di piombo avevano diffuso anche in una certa parte della società francese dubbi sulla democraticità dell’Italia, e quindi della sua magistratura.
Puntualmente, come già avvenuto in passato, per esempio dopo la cattura e l’estradizione a Roma dal Brasile (era il 2019) del pluri-condannato Cesare Battisti che per anni aveva beneficiato della ‘dottrina Mitterrand’, diventando fra l’altro autore di gialli, sempre pubblicamente difeso da una cerchia di intellettuali ‘progressisti’ francesi (poi clamorosamente smentiti dalle confessioni-ammissioni dello stesso Battisti una volta finito nelle carceri italiane), puntualmente si fa anche la conta dei latitanti, quelli ancora in ‘libertà’.
I più importanti – ricorda stamane ‘la Regione’ – Alessio Casimirri e Alvaro Baragiola (Lojacono), due condannati all’ergastolo per l’assassinio in Via Fani a Roma (16 marzo 1978) di Aldo Moro e dei cinque uomini della sua scorta. Leader storico della DC, Moro era stato il principale protagonista, con Enrico Berlinguer, del ‘compromesso storico’, cioè dell’inedito sostegno parlamentare esterno del partito comunista ad un governo democristiano, ritenuto necessario per affrontare la minaccia terrorista.
La vicenda di Baragiola è nota in Ticino. Vi arrivò dopo una breve latitanza in Algeria, e senza che scattassero controlli nei suoi confronti. Acquisì il cognome della madre (Baragiola, appunto). Ottenne quindi la cittadinanza svizzera. Per alcuni anni fu collaboratore dell’allora RTSI. E una volta emerso il suo passato, ne scaturì un vivace e polemico dibattito politico, con molti irrisolti interrogativo su come gli fu possibile entrare nella Confederazione senza che emergesse subito il suo passato e la ricerca da parte italiana. Arrestato a Lugano e condannato a 17 anni per l’assassinio a Roma del giudice Girolamo Tartaglione, ne scontò una decina per buona condotta, e oggi è assistente all’Università di Friburgo.
In Italia Baragiola venne condannato all’ergastolo nel processo cosiddetto Moro Quater. Per questo gravissimo reato non è mai stato processato in Svizzera. E l’atteggiamento della magistratura italiana in merito non è mai stato chiaro. Sembra infatti (da una verifica fatta ancora ieri dalla nostra redazione) che questa non consegnò mai la richiesta documentazione a quella elvetica (eventualmente per istruire un processo nella Confederazione), e non risulta ad oggi che Roma abbia mai chiesto formalmente l’estradizione di Baragiola. Forse (probabilmente?) perché, come ha ribadito Berna due anni fa, come cittadino svizzero il ticinese non è comunque estradabile.
Baragiola (condannato in Italia anche per partecipazione all’uccisione di uno studente greco di estrema destra) era stato arrestato una seconda volta nell’estate del 2000 vicino a Bastia, in Corsica, dove la madre aveva acquistato una casa. Evidentemente su segnalazione dei servizi italiani. Rimase in carcere alcune settimane, ma i suoi avvocati riuscirono a ottenerne la liberazione, facendo valere appunto la dottrina Mitterrand.
Sulla via del ritorno in Svizzera, ai tavolini di una brasserie parigina, rilasciò un’intervista al Corriere della Sera. Contattato dalla redazione del programma “Falò” rifiutò di rispondere ad altre domande, e rivendicò anche il suo “diritto all’oblio”, sostenendo di aver già pagato il conto con la giustizia.
Un “diritto” che in realtà non è rivendicabile in questo caso. Per due motivi. Primo: la vicenda giudiziaria da parte italiana è ancora aperta per Baragiola-Lojacono, la condanna all’ergastolo è definitiva, e la pena non scontata. Non può quindi essere considerato un caso chiuso. Secondo, e per certi aspetti ancor più determinante: l’assassinio di Moro e degli agenti della sua scorta è stato il momento più tragico degli anni di piombo, quindi una pagina di Storia che non può essere cancellata insieme ai nomi dei suoi protagonisti.
Pubblichiamo, per concessione della testata, l’ultima intervista concessa da Alvaro Baragiola, rilasciata a ‘Ticinonline’ il 21 gennaio 2019
La Lega dei ticinesi ha invitato il governo federale a consegnarla alle autorità italiane. Come valuta, lei, questa richiesta?
“Per cominciare tengo a precisare che l’Italia non ha mai chiesto la mia estradizione alla Svizzera (ndr: il fatto é accertato dalla sentenza del Tribunale federale del 9/4/191), ed una ‘consegna’ come la richiede la Lega equivarrebbe a una deportazione alla boliviana che la Confederazione non prevede”
Lei ha scontato una pesante condanna in Svizzera per fatti che le sono imputati in Italia, ma sembra che le autorità italiane non ne tengano conto. Perché?
“L’Italia non riconosce , né può riconoscere, la carcerazione sofferta in Svizzera per gli stessi fatti e reati perché non solo non ha chiesto alla Svizzera l’estradizione, ma neppure ha chiesto alla Confederazione di processarmi in Svizzera”
Ci risulta però che nel 2006 l’Italia presentò alla Confederazione una richiesta di exequatur, cioè di esecuzione in Svizzera delle condanne italiane…
“È vero, però la richiesta italiana riguardava solo la sentenza del processo Moro IV, invece della decisione giudiziaria di cumulo delle pene dei diversi processi, e non garantiva che, una volta eseguita la pena in Svizzera, il paese richiedente l’avrebbe pienamente riconosciuta come scontata. Il rischio era che, una volta eseguita in Svizzera, l’Italia avrebbe poi proceduto per farla valere o eseguirla di nuovo, cosa illegale ma non sorprendente, o avrebbe chiesto l’esecuzione ulteriore delle altre condanne. Per questo motivo la richiesta italiana fu respinta dai giudici del Canton Berna”
Per quale motivo le autorità italiane (i diversi governi che si sono succeduti) hanno scelto di non chiedere l’estradizione e poi, in caso di rifiuto, il processo in via sostitutiva?
“Questo bisognerebbe chiederlo a loro. Io non lo so e posso solo fare delle ipotesi, forse l’Italia non ha voluto che uno Stato straniero mettesse il naso nel processo Moro. Sarebbe comprensibile. Qualunque sia la ragione non sono le autorità svizzere, né una mia presunta opposizione, ad aver creato l’impasse attuale”
Come si spiega questa “storia sospesa”?
“Forse perché è più facile non fare nulla e sbraitare contro la Svizzera e il sottoscritto; su un ‘latitante’ si può dire qualsiasi cosa perché non è in condizione di difendersi, vengono addirittura qui con telecamere nascoste, figuriamoci. O forse perché il dossier dell’exequatur è stato affidato a qualche funzionario cialtrone e incompetente; non lo so, ma è evidente che il problema sta da quella parte”
E se l’Italia presentasse una richiesta di exequatur corretta e completa (cioè per tutte le condanne italiane cumulate), con la garanzia che l’Italia non procederà più per gli stessi fatti, lei come reagirebbe?
“Sono passati 40 anni e l’Italia si è sempre mossa in una logica di vendetta, come si è ben visto anche nel caso Battisti, e non ha mai rinunciato a un quadro giuridico d’eccezione. In una giustizia normale la “certezza della pena” vale anche per il detenuto: io sono stato scarcerato quasi 20 anni fa e sto ancora come prima dell’arresto, senza sapere se un giorno o l’altro mi ri-arrestano o mi ri-processano per qualcosa. Se ora l’Italia decidesse di muoversi con una richiesta come quella che ipotizza, io accetterei senza obiezioni, almeno metteremmo la parola fine a questa vicenda”
Sta dicendo che accetterebbe l’ergastolo che un giudice svizzero, secondo le sentenze italiane, le dovesse infliggere?
“Sì”
Ripensa spesso a quel mattino in via Fani?
“Ogni volta che il tema è rilanciato dai media, associandolo al mio nome, ricevo insulti e minacce. È una pena supplementare, non ci posso fare niente. Ci sono memorie collettive diverse ed in conflitto fra di loro, e nessuna sarà mai condivisa da tutti. Entriamo nel cinquantenario del lungo
1968, dopo mezzo secolo si dovrebbe poter trattare le cose storicamente, ma non è così, sembra che i fatti siano avvenuti ieri”
Cosa contesta nella lettura odierna dei fatti di allora?
“All’epoca, erano passati 30 anni dalla fine della guerra e dei suoi drammatici strascichi di guerra civile, ma quella era già storia, nessuno lanciava stagioni di caccia grossa agli ‘impuniti’. Ho avuto un contatto con l’ulitima Commissione parlamentare italiana sul caso Moro, che ha purtroppo mancato l’occasione, scegliendo di dedicarsi alla ricerca di complotti”
Cosa ha detto a questi commissari?
“Quello che penso, e che dico a chiunque – pur evitando di farlo in pubblico – perché so quanto l’apparizione anche solo di una foto possa irritare i parenti delle vittime. C’è stata una ‘linea della fermezza’ lanciata dal PCI al tempo del sequestro Moro, continuata poi con le leggi d’emergenza e con la politica della vendetta, che in questi giorni ha raggiunto livelli impensabili con l’esibizione del detenuto-trofeo (ndr: Battisti). Una catena che neppure la Commissione ha voluto interrompere lasciando la verità nella palude del sospetto”
Dunque resta un tema tabù?
“Non vedo perché parlare con chi mi considera ancora oggi terrorista e nemico pubblico. Che non sono. Ma non è un tabù, ne parlo con storici e ricercatori con cui si può discutere, solo lontani dalla propaganda e dalle fake-news si può ritrovare un senso storico”.
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