Giustizia federale? Troppo lenta se si tratta di banche
Credit Suisse accusato di riciclaggio (146 milioni) a favore di un boss della mafia bulgara: un caso che potrebbe riservare altre clamorose sorprese e che conferma la lentezza della giustizia in questi casi
È in corso in questi giorni al Tribunale penale federale (TPF) il processo nei confronti di Credit Suisse. La banca è accusata nell’ambito di una clamorosa vicenda di riciclaggio che ha coinvolto un potente e sanguinario boss della mafia bulgara, Evelin Banev. Senza entrare nei dettagli della vicenda, diamo solo un dato: 146 milioni di franchi. È l’ammontare che, secondo il Ministero pubblico della Confederazione (MPC), Credit Suisse – per il tramite di una sua ex impiegata anch’essa accusata – avrebbe riciclato all’organizzazione criminale guidata da Banev.
L’inchiesta della magistratura (che potrebbe riservare sviluppi importanti in seguito a un’indagine giornalistica condotta a livello internazionale) è iniziata quasi 15 anni fa mentre i fatti imputati risalgono ancor prima, al periodo 2004-2008. Un altro mondo, un’altra epoca. Ovvio quindi che, in entrata di processo, le difese abbiano fatto leva su queste lungaggini e chiesto che il caso venisse archiviato per avvenuta prescrizione. I giudici hanno poi deciso di andare avanti, ma hanno già ribadito che i fatti verificatisi prima del febbraio 2007 sono in effetti prescritti e non saranno esaminati.
Il caso è significativo della lentezza della giustizia svizzera in materia di criminalità economica. La vicenda di Credit Suisse è soltanto l’ultima di una lunga lista di casi che arrivano troppo tardi davanti ai giudici di Bellinzona. Oltre a macchiare la reputazione della giustizia (esiste un cosiddetto principio di celerità), indagini così bislunghe segnano anche la vita dei protagonisti dei vari casi, siano essi imputati o vittime.
Certo i casi sono internazionali, necessitano di rogatorie in Stati a volte poco collaborativi, e di complesse analisi finanziarie. Ma la macchina giudiziaria elvetica è oggettivamente lenta. Troppo lenta. In questi giorni ricorre il trentesimo anniversario dall’inizio dell’operazione Mani Pulite. In quegli anni, dal 1992 al 1999, da Milano partirono oltre 400 rogatorie per la Svizzera. I tempi di risposta furono lunghissimi, dovuto certo all’incompletezza di alcune domande italiane, ma anche alle innumerevoli possibilità di ricorso cavalcate in Svizzera dalle difese dei depositari dei conti elvetici. Oggi, i tempi della collaborazione giudiziaria si sono certo accorciati, così come all’interno della Svizzera è stata aumentata la prescrizione per i reati finanziari. Ma la Svizzera resta lenta.
Tra le varie cause vi è proprio l’uso sistemico della tecnica del ricorso. Prendiamo la cosiddetta “apposizione sigilli”, prevista dal codice di diritto processuale penale (articolo 248). In tutti i procedimenti di riciclaggio o corruzione, la maggior parte delle prove si trova sugli estratti conto, ma anche su supporti elettronici. Se un procuratore vuole però ottenere questi dati spesso si trova confrontato con l’opposizione calcolata dei diretti interessati che chiedono di sigillare il contenuto invocando la violazione di un segreto. A decidere sarà un giudice che dovrà ordinare tutti i dati, le e-mail, e filtrare i messaggi per determinare ciò che è utile per il procedimento. E così passano gli anni… “Nei procedimenti per crimini economici, la procedura di sigillatura è un disastro. È totalmente inadatto alla lotta contro il crimine economico” ha dichiarato Yves Bertossa, procuratore a Ginevra e figlio di quel Bernard Bertossa che tanto si è battuto – spesso invano – per migliorare la reattività della Svizzera nella lotta al riciclaggio e alla corruzione internazionale.
Prendiamo un caso specifico. Dal 2019, la Procura federale sta indagando nei confronti della banca J. Safra Sarasin per il suo ruolo nell’affare brasiliano Petrobras. Da due anni gli inquirenti aspettano di potere accedere a 18 hard disk di informazioni interne messe sotto sigillo nel Canton Vaud (che fa stato poiché l’inchiesta è condotta dalla sede di Losanna dell’MPC) su richiesta degli avvocati della banca. Un ritardo talmente lungo che lo stesso MPC ha accusato il tribunale vodese di “diniego di giustizia” chiedendo di pronunciarsi sulla sua richiesta di levata dei sigilli e avvertendo che “i termini di prescrizione dei procedimenti penali per alcuni fatti potrebbero essere raggiunti”.
L’affare è giunto così al Tribunale federale che, pur riconoscendo la “lentezza” della procedura, ha respinto la richiesta della Procura federale. La sentenza parla da sé: da un lato afferma che il termine di prescrizione è comunque già scaduto per una parte degli atti di cui è accusata la banca; dall’altro ricorda come la procedura di dissequestro sia stata anche rallentata da una richiesta di ricusazione presentata dalla banca contro il procuratore incaricato dell’indagine.
Una procedura, quella di chiedere la ricusazione, che non è isolato ed è un’altra tattica per dilatare le inchieste. Tattica utilizzata anche dalla banca Cramer che, per il ruolo della sua filiale luganese, è anch’essa sotto indagine penale da parte dell’MPC per il caso Petrobras. Inutile dire che il ricorso è stato respinto, facendo però perdere tempo prezioso alle indagini e avvicinandole alla prescrizione. Un ultimo dettaglio: gli avvocati di J. Safra Sarasin e Cramer sono gli stessi. Ecco chi sono gli unici vincitori.