C’è un solo vero, immediato interrogativo dopo il “Super Tuesday” americano, con le contemporanee primarie in quindici Stati dell’Unione. Ed è una domanda che non riguarda i due protagonisti della contesa, Biden e Trump, che come ampiamente previsto hanno fatto man bassa del numero di delegati per riottenere in estate la ricandidatura dalle rispettive Convention, democratica e repubblicana. L’incognita di queste ore riguarda invece la comprimaria Nikki Haley, ex ambasciatrice all’ONU, sfidante del “tycoon”, esponente dell’ “ Grand Old Party”, di nuovo prigioniero di Trump, della sua narrazione ben più che conservatrice dei leader repubblicani del passato: narrazione reazionaria, primatista, anti-istituzionale più che anti-elitista. E ora, che farà la già governatrice della Carolina del Sud, che ha sfidato con sprezzo del pericolo Trump, riuscendo a raccogliere finora soltanto due “piccoli” successi: a Washington DC (dove regnano i disciplinati funzionari dello Stato, poco tentati da avventure anti-democratiche) e ieri nel Vermont, staterello (in termini di rappresentanza) dove i democratici hanno sempre ottenuto la maggioranza nella corsa alla Casa Bianca, contaminando di moderatismo anche l’elettorale repubblicano locale. Nikki, getterà o no la spugna?
Nella prima ipotesi lo farebbe per non alienarsi chance future in uno schieramento che altrimenti la considererebbe una sorta di infedele; nella seconda tentando eventualmente anche una candidatura indipendente, possibile anche grazie ai robusti finanziamenti ottenuti per tenere a galla la sua sfida, nella convinzione che nel dopo Trump il partito tornerà alle sue passate tradizioni anti-eversive. Rebus che dovrebbe sciogliere già nelle prossime ore. Dopo che comunque ha dimostrato che una fetta non indifferente di elettorato repubblicano (un po’ meno del 20 per cento) farebbe volentieri a meno dell’ex presidente e della sua rozza strategia e della sua politica fortemente divisiva. Quindi, anche in caso di abbandono, quanta parte di questa minoranza interna sarà ancora disposta a negare il suffragio all’uomo che oggi i sondaggi danno per favorito per un ritorno al comando della nazione, prospettiva che dà i brividi alla maggioranza delle capitali europee? E questa pur contenuta contestazione casalinga potrà rovinargli la festa? Per di più restando in gara, la Haley costringerebbe il rivale a battersi su due fronti, suddividendo risorse che non ha: deve comunque versare più di 500 milioni di dollari per sanzioni comminategli in sede civile (aggressione sessuale e frode fiscale). Secondo la CBS, a inizio febbraio aveva a disposizione ancora 65 milioni, la metà di quelli di Biden. Buchi di bilancio dovuti anche al fatto d’aver usato buona parte del budget per pagare la folta pattuglia dei suoi legali.
Altra suspense, oltre alle intenzioni della Haley, non sembra per il momento esistere. Soprattutto, come ha sancito la Corte suprema all’unanimità – quindi anche con l’assenso dei tre giudici ‘progressisti’ su nove – con la sentenza che dichiara eleggibile Donald Trump. Potrebbe segnare la fine ipotesi di una sua esclusione per via giudiziaria. Certo, vi sono ancora, e in particolare, i due atti d’accusa più pesanti: l’incitazione alla rivolta dell’Epifania 2021 per cancellare con atto sovversivo la vittoria di Biden; e le prove (attraverso telefonate registrate) di come tentò esplicitamente di indurre alcuni funzionari della Georgia a truccare l’esito delle elezioni per assegnare al presidente uscente i voti di quello Stato chiave. Ma il calendario è dalla sua parte, perché negli ultimi tre mesi della campagna elettorale, quindi da fine agosto, per legge un candidato alla Casa Bianca non è processabile. E ancora: Trump ha già chiesto alla Corte suprema – formata in maggioranza da giudici conservatori, in parte da lui scelti – che un capo dello Stato in attività non possa finire sul banco degli imputati in un’aula. I suoi toni trionfalistici, in questi giorni, danno comunque già la misura della sua convinzione di vittoria finale.
Diverso lo stato d’animo di Joe Biden, concorrente senza alternativa nel partito dem: un anziano tenace, ma circondato dai dubbi del suo stesso partito e del suo elettorato. Sulla sua età, sulle sue condizioni psico-fisiche, sulla sua politica in Ucraina, sull’ impotenza diplomatica finora dimostrata nel tentativo di disinnescare la guerra di Gaza, sulla parallela impopolarità nella potente minoranza ebraica ma anche nella sempre più delusa minoranza araba e musulmana, sulla delusione dell’elettorato giovane, su una politica economica che tutti gli specialisti promuovono ma che i consumatori valutano soprattutto per gli effetti persistenti dell’inflazione, seppur in calo. Si rimprovera, all’attuale presidente, anche il fatto di non aver preparato una sua successione (fatto non raro per chi sta al comando e pensa di rimanervi ancora), in particolare di aver sempre messo in ombra la sua vice, Kamala Harris, affidandole peraltro un unico dossier, quello (da “mission impossible”) dell’immigrazione clandestina, impopolare per il comune cittadino e indispensabile invece per imprenditori in affannosa ricerca di manodopera, per di più a basso salario. Tutto perduto? No. Tuttavia terribilmente in bilico. Addirittura con l’ipotesi (certo fievole, ma non si sa mai) che fra tre mesi Joe Biden possa rinunciare e passare la mano. Ma a chi? Mistero.
Dunque, il super martedì ha certificato quel che già si sapeva; rimane l’incognita di Nikki Haley; va ancora valutato quanti elettori di quest’ultima rimarranno convinti ‘no Trump’; e rimane ancora uno spiraglio in termini giudiziari, poiché in aprile la Corte suprema dovrà comunque dire se Trump debba o meno rispondere penalmente dell’assalto al Campidoglio del 6 gennaio. Perché infine, scrive Gregory Alegi, docente di storia e politica americana, “tutto ruota attorno a quel mercoledì di ordinaria follia”.