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Di Corinne Johannssen, Felix Würsten

Signor Ackermann, lei è a capo della Swiss National Covid-19 Science Task Force e in questaveste sta consigliando il Consiglio federale durante la pandemia di corona. Le piacerebbe qualche volta essere lei stesso un consigliere federale?

Non ci ho mai pensato in questo modo. Nella situazione attuale, in realtà a volte troverei più soddisfacente non solo proporre, ma anche avere voce in capitolo nel processo decisionale. Da questo punto di vista, sarebbe davvero un’idea eccitante. Ma ho anche notato quanto siano grandi la pressione e la responsabilità dei politici – forse preferirei rimanere un professore dopo tutto (ride).

Quindi il suo campo d’azione si limita alle raccomandazioni?

Noi forniamo la base scientifica, i politici prendono le decisioni. Come capo della task force, compaio anche nelle conferenze stampa del governo federale. Sullo sfondo, tuttavia, molto ruota intorno al mantenimento delle relazioni e del dialogo. Ci è voluto del tempo per guadagnare la fiducia dei politici. Possiamo fare bene il nostro lavoro solo se chi prende le decisioni ha fiducia in noi. Abbiamo diversi compiti in questo senso: siamo la voce della scienza, consigliamo il governo e informiamo il pubblico. Ci sono anche aree di tensione tra questi tre compiti. Come voce indipendente, dovremmo interrogare criticamente il governo, ma il ruolo consultivo funziona solo se i politici hanno fiducia in noi.

Cosa ha imparato sulla politica negli ultimi mesi?

Ho un grande rispetto per ciò che i politici fanno. Il loro lavoro è fortemente influenzato dalle condizioni quadro. Come scienziato, non sono abituato a questo tipo di situazione. Nella ricerca, fissiamo noi stessi lo standard che vogliamo raggiungere e poi lavoriamo finché non lo raggiungiamo. In politica, i vincoli sono così grandi che influenzano tutto. Ma ho incontrato politici che capiscono molto bene non solo la politica ma anche la scienza della pandemia.

E che dire dei media?

Sono impressionato da come certi giornalisti tengano bene il conto delle cose. Imparo almeno quanto loro a parlare con loro. Ma ho anche imparato che i media hanno una forte tendenza a sottolineare le differenze. Poiché il loro «Public Health Impact» è grande, in questo modo possono fare danni e non sono sicuro che tutti siano sempre consapevoli di questa responsabilità. Ma naturalmente i media sono lì per mettere in discussione criticamente i messaggi e le decisioni ufficiali.

Si ha l’impressione che la Svizzera abbia difficoltà ad affrontare questa crisi. Questa impressione è ingannevole?

Condivido questa impressione. Soprattutto in autunno, molte persone si sono infettate e molte sono morte.

Questo la sorprende?

Sì, mi sorprende. Certo, questa crisi è semplicemente al di là di tutto ciò che avrei potuto immaginare – eppure pensavo che avremmo potuto gestirla meglio. Che avremmo agito basandoci sull’evidenza, usando molti strumenti, usando le nostre possibilità tecnologiche. Avevo grandi aspettative e sono stato deluso.

È forse dovuto all’immagine di essere migliori degli altri che abbiamo?

La difficoltà maggiore, secondo me, è che in Svizzera si è diffusa molto rapidamente l’idea che bisognava scegliere tra la salute e l’economia. Questo ha avuto un impatto molto forte sulla discussione. Ecco perché è stato difficile per noi intervenire coraggiosamente in una fase iniziale. Il consenso della task force a questo proposito è chiaro: è anche economicamente meglio prendere misure severe che riducano rapidamente il numero di casi piuttosto che prendere misure morbide e accettare lunghi periodi con un numero elevato di casi.

Tuttavia, come possiamo vendere misure dure alla popolazione quando anche al picco della seconda ondata un quarto dei letti di terapia intensiva erano ancora liberi?

Il punto cruciale è che non siamo bravi a trattare i processi esponenziali. Quando i carichi di lavoro sono aumentati rapidamente in ottobre, è stato proposto di mettere a disposizione 200 letti aggiuntivi di terapia intensiva certificata e di far lavorare il personale quattro ore in più a settimana. Pur sapendo che queste proposte nella pratica non erano fattibili, la Task Force ha calcolato l’impatto di queste misure. Avremmo guadagnato solo 36 ore! Quando si ha una tendenza esponenziale, le misure lineari non servono. Ma questo è ciò che la gente non vuole ammettere all’inizio di un tale sviluppo.

È per questo che ci sono così tante persone scettiche?

La maggior parte delle persone non sente nulla o non molto del coronavirus nella loro vita quotidiana, anche quando gli ospedali sono pieni. Non lo vedi, non lo senti, ma tutti ti dicono che c’è qualcosa di veramente brutto e che devi sopportare limitazioni importanti. È una situazione difficile. A questo proposito, non mi sorprende che molte persone siano scettiche. Ecco perché è importante che il personale ospedaliero e i pazienti parlino della loro vita quotidiana.

Si ha l’impressione che gli argomenti scientifici non convincano più molte persone. Abbiamo fatto qualcosa di sbagliato?

Penso che alla fine abbia molto a che fare con l’empatia. Se vuoi convincere le persone, devi prima sapere da che parte stanno. Ascoltare e capire perché qualcuno arriva alle sue opinioni è estremamente importante. Ma naturalmente questo è difficile quando hai un intero gruppo di fronte a te, come in una conferenza stampa. Per questo è necessario parlare con le persone.

Di quali competenze ha più bisogno al momento?

Parlare con la gente, poter avere u o scambio. La cosa più importante è coltivare le relazioni: ascoltare, capire, per poter trovare insieme delle soluzioni. E non arrabbiarsi quando le cose non vanno bene. Ci sono aspetti di questa pandemia che sono vicini alla mia area di competenza, e la competenza scientifica è importante per il lavoro nella task force. Ma non basta.

Esattamente, lei è un professore dell’ETH. Ha ancora tempo per questo?

Sono stato in grado di rispettare quasi tutti i miei impegni, e sia il Politecnico che l’Istituto federale di scienze dell’acqua sono molto solidali. È difficile per il mio gruppo di ricerca. Tengo degli spazi liberi per colloqui individuali, ma è un periodo difficile. E lo è particolarmente perché stiamo parlando delle carriere di persone giovani e di talento.

E come affronta personalmente la tensione? È ancora in grado di spegnere?

Spesso mi sveglio nel cuore della notte e il mio pensiero va subito alla pandemia. Ma sto attento a non consumare troppo in fretta le mie riserve. Quello che mi porta via molta energia sono gli scontri. Sono molto sensibile, mi danno fastidio. Ma per fortuna questo accade molto raramente. La maggior parte degli incontri sono positivi. Alla fine, abbiamo tutti lo stesso obiettivo, e si vede.

Vede anche aspetti positivi di quel che è accaduto?

Avevamo una certa immagine di noi stessi, della Svizzera. Questa immagine è molto contestata in questo momento. Anche questo fa male. La cosa buona è che ora possiamo imparare qualcosa: quanto velocemente possiamo introdurre le nuove tecnologie? a che punto siamo con la digitalizzazione? Come scienziato, è eccitante uscire dalla propria bolla e dare un contributo dinanzi a questi problemi urgenti.

E per lei personalmente?

È un periodo difficile e a volte sono semplicemente esausto. Ma il compito è anche un’opportunità. Cosa c’è di peggio che sentirsi impotenti quando succede qualcosa di grave? Sono nella fortunata situazione di poter dare una mano. Questo è un grande privilegio.

Dal periodico del Politecnico federale di Zurigo Globe – Traduzione R.F. / Naufraghi.ch 






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