Il calcio, lo zio Paperone e i nipotini luganesi
Messi, Lukaku e... Mansueto
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Messi, Lukaku e... Mansueto
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Non sono stato d’accordo, nemmeno un po’, con coloro che hanno irriso al pianto di Messi al momento di lasciare il Barcellona e che hanno accusato il Genio di ipocrisia. La gente piange per motivi ben più futili che non per una porta chiusa su una parte fondamentale della propria vita, e versare qualche lacrima mi è parso una sorta di stretto minimo sindacale. Qualcuno, facendo del moralismo da un tanto al chilo e facendo il pane con la farina altrui (per non dire altro), ha detto che Messi poteva rimanere al Barcellona anche aggratis, se tanto teneva alla squadra; come se costoro sarebbero disposti a farlo, come se fosse giusto ed equo farlo, come se fosse legalmente possibile sulla base delle leggi spagnole, e come se Messi non abbia dato alla squadra (in prestigio, in risultati, in denaro) almeno quanto ha da essa ricevuto. Chi lavora ha il diritto di essere pagato, e la remunerazione si basa sulle competenze e sul mercato, nel calcio come nella vita; e non si capisce bene perché debba essere Messi a farsi alfiere di questa retorica purezza, in un mondo pieno di verginelle in sala parto. Aveva pieno diritto a un pianto, e ha diritto ai soldi che piglierà a Parigi; e senza che qualche solone o qualche censore abbia qualcosa da dire che valga la pena di essere ricordato.
Discorso simile per il gigante belga, partito per Londra dopo aver entusiasmato la platea interista. Adesso si accusa Lukaku di ogni nefandezza, di avidità e di scarso attaccamento alla maglia (dopo due anni, non dopo venti), per aver accettato a Londra uno stipendio doppio. La verità vera è invece che l’Inter è una squadra sull’orlo del fallimento, che fatica a pagare gli stipendi, e con una proprietà con le valigie in mano; e che le cessioni eccellenti che ha fatto (e che forse farà) le servono banalmente per arrivare viva alla fine dell’anno. Peraltro, Lukaku è ben lungi dall’essere stato pagato dall’Inter, che ha quindi vinto uno scudetto un po’ a credito. La narrazione che colpevolizza il giocatore è, sono convinto, stata orchestrata dalla squadra che ha così trovato il capro espiatorio ideale. Ovvio che è più semplice, e assolutorio per la società, accusare il giocatore (che se ne va) per colpe di un management e di una società (che restano e che continueranno a nutrire l’acritica passione dei tifosi) incapaci di pianificazione; ricordo un caso similerrimo, che coinvolse una squadra vesuviana, il suo iracondo presidente cinematografaro e una stella argentina: la colpa del trasferimento fu addossata al giocatore e il presidente fece la vittima incassando il prezzo, con i tifosi stretti attorno alla bandiera e al presidente furbetto.
Chiudo con una chiosa americana. Un miliardario immobiliarista USA, Joe Mansueto, si è comprato il Lugano calcio, nel contesto di un’operazione che definire molto opaca e assai poco placida è farle un complimento. E poi: la politica luganese tira un sospiro di sollievo, perché le vicende della squadra potevano irrimediabilmente zavorrare lo sciagurato progetto di Cornaredo. I miliardari americani approdano in Europa, si innamorano dei luoghi e vi comprano una squadra di calcio, per rivalsa o per giustificare qualche reiterata trasferta nel Paese del sole (o nella sua propaggine prealpina) o per un colpo di testa o di sole agostano, quindi per ragioni che con il business e con la razionalità della gestione sportiva hanno poco o nulla a che vedere. Basti sapere che i miliardari USA sono approdati tutti nei luoghi celebrati dall’immaginario collettivo americano, a Venezia, a Firenze, a Roma; e non in qualche plaga meno suggestiva, non da baedeker. Mansueto si è accontentato di un obiettivo molto minore, addirittura quasi caricaturale, rispetto agli approdi dei suoi colleghi; Mansueto di nome ma modesto di fatto.
Nell’immagine: Joe Mansueto saluta un fan del Chicago Fire FC team (dal sito mansuetoffice.com)
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