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di Alberto Negri

Kabul addio: se ne vanno tutti. Anche Hashmathullah, il mio interprete e compagno di viaggio, ha preso un volo degli americani per San Francisco. Su facebook c’è la sua foto all’aeroporto coi suoi figli. Hashmat, come si faceva chiamare, lo conosco dal 2001, allora aveva 18 anni e sul mio passaporto c’è ancora il visto dell’Emirato dei talebani.

Nel maggio di quell’anno ero andato dal Pakistan in Afghanistan accompagnato da un’esortazione, che era assai poco incoraggiante, di un collega dell’ora mio giornale: “Cosa vari a fare lì, da quelle parti non accade mai nulla di rilevante per noi”.

Ma il visto per Kabul mi era costato una gran fatica e una complicata trafila a Parigi per ottenerlo, e non avrei mai rinunciato a quel viaggio. L’ultima volta che c’ero andato era ancora l’Afghanistan dei signori della guerra, ero stato ospite di Ismail Khan a Herat e di Rashid Dostum a Shebergan, nella provincia di Mazar el Sharif, dove il generale uzbeko aveva il suo vero quartier generale.

I talebani in Pakistan si stavano ancora formando, incoraggiati dal ministro degli interni dell’allora premier Benazir Buttho, che avrebbero poi ucciso in un attentato nel 2007. Nella caserma di Dostum c’era una pozza di sangue che macchiava anche il muro di cinta, pensai che avessero ammazzato un montone, in realtà, mi informarono, avevano appena schiacciato e ucciso contro il muro, con un carro armato, uno degli uomini del generale che aveva rubato dei soldi. Dostum mi ricevette su una sorta di trono luccicante di perle e pietre preziose che immaginavo avesse comprato con i proventi dei campi di papavero che inondavano la sua provincia.

Lo incontrai tempo dopo, in esilio a Teheran, quando i talebani lo avevano cacciato e avevano ucciso a Mazar al Sharif undici diplomatici della Repubblica islamica iraniana. Allora Khamenei avrebbe voluto mandare una spedizione punitiva e sollecitò anche gli americani a intervenire. Non ebbe risposta.

Tutti quelli che mettevano in difficoltà l’Iran erano graditi agli USA e ai loro alleati del Golfo: in quel momento erano i talebani, poi fu la volta dei jihadisti e dell’Isis che insieme i turchi e gli emiri del petrolio tentarono di far fuori Assad in Siria. Oggi Dostum è il vice del presidente Ashraf Ghani: chissà se resterà al suo posto o lo incroceremo in un altro esilio, se i talebani lo cercheranno di nuovo.

Nel maggio del 2001 incontrai per la prima volta Hashmat nella hall dell’Hotel Intercontinental, dove, come ovunque in Afghanistan, non c’erano luce, acqua e telefono. Pensai che se si era offerto di farmi da accompagnatore era evidente che avesse il permesso dei talebani. Facemmo un giro della collina che sovrasta il Politecnico di Kabul, e Hashmat mi fece notare che era stato costruito dai sovietici a forma di stella rossa. La stella rossa a cinque punte venne utilizzata dal 1917 come un simbolo del comunismo, rappresentava allo stesso tempo le cinque dita della mano del lavoratore e i cinque continenti, il che si mette in relazione con l’internazionalismo della parola d’ordine marxista: “proletari di tutto il mondo, unitevi”. Queste cose Hashmat le sapeva perfettamente e me le raccontava, lo zio parlava russo e poi diventò anche capo della nuova polizia nella valle del Loghar. Me le diceva sottovoce, naturalmente, perché parlare di comunismo sotto i talebani – ma anche altrove – non era un argomento gradito.

L’unico collegamento con l’esterno che avevamo era una piccola radio a onde corte per ascoltare la BBC, peraltro proibita pure quella dal regime del mullah Omar. Era lui che la teneva nascosta a casa sua, per evitare che mi cacciassi nei guai, e l’ascoltavamo insieme in cantina, un volta al giorno, con un filo per captare le trasmissioni, che usciva da una piccola finestra. Hashmat aveva occultato questa sottile rudimentale antenna in un canaletto di terra. Sotto il pavimento, in apposite intercapedini, il papà e la mamma di Hashmat tenevano di tutto, dai soldi alla televisione (vietatissima) a scatole di cibo d’emergenza. C’erano anche un paio di kalashnikov con le munizioni, ma i fucili qui tutti li hanno sempre avuti.

Poi, pochi mesi dopo, venne l’11 settembre.

Il regime dei talebani con gli alleati di Al Qaida cadde, ma si continuava a morire. Partii da Jalalabad tre giorni prima che Maria Grazia Cutulli e Julio Fuentes fossero uccisi sulla strada per Kabul. Ritrovai Hashmat, che mi aiutò a sopravvivere al dolore, e vennero tempi migliori. Migliori, non belli. Hashmat mi portava dappertutto, e proprio nella valle del Loghar intervistammo in clandestinità l’ex ministro della giustizia talebano, quello che durante l’Emirato tagliava le teste. Disse che era pronto a fare un accordo anche con gli americani: quello che accadde molti anni dopo, a Doha, in Qatar. Forse, all’epoca, si sarebbe potuto negoziare una via d’uscita meno traumatica di quella che si profila oggi.

Anche per Hashmat adesso il biglietto è scaduto. Ha lavorato con gli americani e con noi, dai talebani è considerato un collaborazionista, come gli harkis algerini dopo la guerra anti-francese, come i vietnamiti di Saigon. Ora è salito sull’aereo per San Francisco, ha lasciato il suo paese e il suo mondo, più per salvare la sua famiglia che sé stesso. A Kabul non ritroverò il mio amico afghano: col tempo, nella vita si resta sempre più soli, e non resta che augurare buona fortuna a tutti.

Per gentile concessione de ‘il manifesto’






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