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Per stare dalla parte delle vittime (le donne e gli uomini che vivono nell’Ucraina invasa dalle truppe di Putin) è necessario assumere la logica binaria della guerra? O la si può contestare da fuori? Da "pacifista", Tomaso Montanari prova a dare tre risposte alla domanda: che fare ora?


Redazione
Redazione
Il realismo dei pacifisti contro il...
• 6 Marzo 2022 – Redazione

Di Tomaso Montanari, Micromega

Non è facile coltivare pensieri umani, in questi giorni disumani. Non è facile resistere all’ondata emotiva di una guerra vista e raccontata, minuto per minuto, come un’olimpiade o una maratona elettorale.
Difficile negarlo: nella cronaca dei giornalisti televisivi, specie dei maschi, sotto la doverosa condanna occhieggia di continuo un entusiasmo agonistico, una mai sopita attrazione per la guerra. Sulla prima pagina del più diffuso giornale italiano, si è arrivati a lamentare che «noi occidentali stiamo perdendo la potenza delle armi perché non sopportiamo più di subire perdite in una guerra convenzionale. All’epoca dei nostri nonni un caduto in famiglia era motivo d’orgoglio, oggi è considerato inaccettabile». I politici occidentali stanno al gioco, tutti ora schierati con le vittime, con fiumi di retorica bellica e con in testa un metaforico elmetto. Tutti siamo in guerra.

E la domanda che pochissimi provano a sollevare è: per stare dalla parte delle vittime (le donne e gli uomini che vivono nell’Ucraina invasa dalle truppe di Putin) è necessario assumere la logica binaria della guerra? Si deve essere dentro la logica della guerra? O la si può contestare da fuori? Contestare tutta la guerra, e la sua genesi: senza per questo smettere di distinguere tra vittime e carnefici.
Oggi, ai pacifisti che si ostinano a dire che la guerra non è mai la soluzione, ma sempre e solo il problema, si chiede con disprezzo: ‘e allora ora voi cosa fareste? Lascereste fare i russi?’ Il lato osceno di questa domanda sta nel fatto che nessuno di coloro che oggi la pone – nessun politico, nessun giornalista, nessun opinionista –, è mai stato prima interessato a sapere cosa i pacifisti pensassero di Putin e della sua politica interna ed estera; della politica di potenza della Nato; della non-politica della Unione Europea; della guerra che insanguina l’Ucraina dal 2014, con 14.000 morti e con accertate violazioni dei diritti umani da entrambe le parti; delle spese militari e del potere, nelle democrazie occidentali, dell’apparato militare-industriale. La parola, su tutto questo, non è mai stata data ai pacifisti: poveri utopisti senza presa sulla realtà. No, la parola era ovviamente ai cinici: ai realisti, ai machiavellici, ai fautori della Realpolitik. Quelli che sanno stare al mondo.

l risultato del realismo machiavellico è ora sotto gli occhi di tutti. L’Occidente non ha mai seriamente sostenuto la lotta per la democrazia in Russia, ma ha sempre fatto affari con lo zar Putin. La Nato si è espansa molto più di quanto si fosse garantito di voler fare: e se è vero che i popoli vicini alla Russia hanno il diritto di tutelarsi (e anche le ragioni per farlo, come si vede), è anche vero che se quello che vediamo è il risultato finale, più di qualcosa non ha funzionato. Dal 1989, gli Stati Uniti e i loro alleati hanno dato per scontato che la partita era stata vinta, e che solo una potenza mondiale sarebbe rimasta: ma era un’illusione, un grave errore di comprensione del mondo e della storia, un ultimo, fatale, imperialismo.

Tutto questo giustifica l’invasione di Putin? No, nel modo più assoluto. E nemmeno la spiega: se non mettendo in conto una paranoia distopica, che non può invece essere assunta come un dato di fatto pacifico. E qua bisogna avere il coraggio di riconoscere che la giusta critica del pensiero pacifista occidentale contro l’azione dei governi dell’Occidente ha a tratti sminuito, se non giustificato, la mostruosità della politica omicida di Putin.

Ma tutto questo dovrebbe ora impedire, a chi governa l’Occidente di irridere i pacifisti: cioè coloro che, ad ogni bivio, avrebbero preso la strada opposta (dicendolo, e lottando per questo). E dovrebbe anche impedire di celebrare la presunta virtù di un cosiddetto realismo politico che ci ha condotti qua: sull’orlo di una Terza Guerra Mondiale, di un conflitto nucleare senza ritorno. E tutto questo non vuol dire ‘criticare l’Occidente quanto Putin’: in una impossibile equidistanza tra un sistema democratico che tradisce se stesso, e un sistema dichiaratamente tirannico. Ma vuol dire che il pensiero critico che in Occidente resiste deve criticare innanzitutto la sua stessa parte: quella che può riuscire a cambiare, quella dalla quale potrebbe aspettarsi qualcosa.

E così, da ‘pacifista’, vorrei provare dare tre risposte a quella domanda: che fare ora?

La prima cosa.
Rifiutare il veleno del nazionalismo: distinguere tra i popoli e i governi. Ho sentito una donna ucraina che vive in Italia parlare con toni sororali dei giovanissimi soldati russi che si arrendono dicendo che non sapevano di essere stati mandati in guerra, e argomentare con empatia circa la difficoltà di una opinione pubblica russa tenuta in ostaggio dalla censura e dal controllo dei media. E sentire un’ucraina che in questo momento non si fa trascinare dall’odio del sangue, ma è capace di distinguere, dovrebbe insegnarci qualcosa. Insegnarci a stare accanto alle donne e agli uomini che vivono in Ucraina, sotto le bombe di un’invasione mostruosa: senza per questo sposare la politica dei governi ucraini e dell’Occidente che li ha sostenuti. Stare fermamente contro Putin, contro la sua lucida (?) follia di tiranno sanguinario: ma non stare contro i russi. Diffondere senza sosta anche in Occidente, in Italia, le voci dei russi che, coraggiosamente, si oppongono con forza al tiranno: come quelle del poeta Lev Rubinštejn e della scrittrice Ljudmila Petruševskaja. Perché, come canta Leonard Cohen, «There is a crack in everything, That’s how the light gets in».

La seconda cosa.
Rifiutare l’idea di gettare benzina sul fuoco, per quanto possa sembrare giusto farlo dalla parte degli oppressi, degli invasi. Se è giusto, oltre che compatibile con la nostra Costituzione, inviare in Ucraina «equipaggiamenti militari non letali di protezione», e cioè mezzi di difesa e non di offesa, sarebbe invece un grave azzardo mandare armi vere e proprie. I capi dell’Occidente pensano di cavarsela più a buon mercato, e senza rischiare direttamente: senza, cioè, terremotare più di tanto un’economia globale legata mani e piedi alla Russia di Putin. È un calcolo cinico, che rischia di essere anche drammaticamente sbagliato: perché prolungare e aggravare una guerra dall’esito purtroppo scontato, può aprire la strada a esiti che non lo sono per nulla. Buttare benzina su questo fuoco, infatti, può condurre – quasi meccanicamente, cioè senza che nessuno davvero si renda conto di ciò che sta innescando, e in tempi brevissimi – a un’apocalisse nucleare.

La terza cosa.
Premere sui nostri governi perché le sanzioni economiche contro la Russia siano veloci, veramente dure, mirate sull’oligarchia. Sapendo bene che, per fare male a chi le subisce, le sanzioni devono fare male anche a chi le commina. Il prezzo sarà alto, per le nostre economie, e i governi dovranno evitare che a pagarlo sia chi già è sommerso, sia in Russia che in Occidente. Ma non c’è altra strada, ora.

Ripudiare la guerra significa lavorare per non crearne le premesse, per allontanarla, per annullare le possibilità che si verifichi. Come Occidente, come Italia, non lo abbiamo fatto. Ripudiare la guerra significa, quando comunque scoppia, non accettarne la logica infernale: cioè rifiutarsi di prendere le armi.
Sappiamo bene che, oltre un certo limite, può essere impossibile rimanere coerenti con la pace: la guerra di liberazione partigiana ne è un esempio. Così doloroso da far scrivere ai vincitori che non avrebbe mai dovuto ripetersi: perché quella guerra era stata combattuta sotto una terribile costrizione, combattuta perché fosse l’ultima.
Ma sappiamo anche che, in questa situazione, la minaccia nucleare cancella radicalmente anche questa estrema ipotesi di guerra giusta: semplicemente perché nessuno potrebbe vincerla.

Una delle cose più terribili della guerra è che, quando scoppia, incanala i pensieri di tutti nel suo schema nazionalista binario. Scrivendo nel 1938, Virginia Woolf opponeva a questa morsa una radicale alterità, quella di chi era fuori dalla logica del potere, e dunque degli schieramenti e delle ‘patrie’. Rivolgendosi a un ideale interlocutore maschio membro della classe dirigente dell’Impero britannico che si diceva pronto alla guerra antifascista diceva: «Tu stai combattendo per conquistare vantaggi che io non ho mai condiviso né mai condividerò: in quanto donna, non ho patria, in quanto donna la mia patria è il mondo intero». Era un pensiero radicale, che guardava lontano e puntava al cuore del problema, cioè contro la volontà di potenza che è genesi di tutte le guerre: un pensiero più o meno realista del maschio realismo che produce guerre a getto continuo?

 

 






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