Il sesso dell’economia
Anche nella quasi-religione dell'economia le visioni imperanti sono quelle maschili
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Anche nella quasi-religione dell'economia le visioni imperanti sono quelle maschili
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Anche nella quasi-religione dell'economia le visioni imperanti sono quelle maschili
Spesso si fa un gran parlare, in maniera critica o ironica, del rapporto tra religioni e donne, soprattutto se pretendono di essere velate. Le religioni (si pensi a ebraismo, cristianesimo, islamismo) nelle loro strutture istituzionali sono fondamentalmente e tenacemente maschiliste. Lo si ammetta o no, la realtà ci dice che le religioni sono stradominate dai maschi, pur dovendo esaltare qualche icona femminile (Sara, Maria, Rachele, Aisha) per lusingare la loro platea, in gran parte femminile (altra stranezza). Si può osservare- questo è vero- che il problema è stato posto e sentito tra i cristiani, forse per la «contraddition che nol consente» e che da un punto di vista dottrinale rimane sempre il maggior tormento istituzionale tra i cattolici, dal quale neppure papa Francesco, che apre persino agli omo, riesce a liberarsi. Perché mai questa subordinazione o scarsa considerazione delle donne? È legge divina, è legge naturale, è tradizione millenaria diventata pietra d’angolo inamovibile nonostante l’evoluzione dei tempi e del diritto?
Non ho competenza per entrare in materia, ma gli interrogativi devo pormeli, anche di fronte a ciò che mi propone l’attualità, alle volte esecranda. Ho però la competenza per esplorare un campo che è mio. Arrivo allora alla conclusione che ciò che si rimprovera alle religioni, fondamentalmente maschiliste, lo si riscontra tale e quale nell’economia.
L’economia si fonda anch’essa su dei dogmi. Indichiamone due. Il primo consiste nel presentare la concorrenza e la «libera» circolazione delle merci e dei capitali come principi di interesse generale da cui dipendono tutti gli altri. Ciò che ha portato a una concentrazione senza precedenti del potere economico e finanziario. In mani maschili. Il secondo è la priorità assoluta data alla crescita o al famoso PIL (prodotto interno lordo). Ora, se ci pensiamo bene, questi due dogmi esprimono, nel registro dell’economia, dei valori e dei predomini assolutamente maschili. Essi rendono così invisibile la maggioranza delle attività femminili, sopravvalutando quella degli uomini. Pochi, esempio clamoroso, badano al fatto che quando si parla di PIL (la maggior ricchezza prodotta in un determinato periodo nella nazione), le attività domestiche, compresa l’educazione dei figli, attività essenzialmente femminili, non contano niente, come non conta neppure il volontariato, pure molto femminile. Quasi non fossero una ricchezza. O forse perché sono troppo «umani» ?
Interrogarsi sul sesso dell’economia è una maniera feconda per mettere in causa l’«economismo» o la pretesa dell’economia maschilista di imporre dei concetti, delle leggi, delle visioni della ricchezza che nascondono o sviliscono pratiche e valori quasi connaturalmente femminili (dedizione, solidarietà, scambio giusto, ripartizione dei compiti, lavoro gratuito o volontariato al servizio del benessere generale, il prendersi cura…). I quali, oltretutto, sono quelli decisivi per uscire dalla crisi attuale, che non è pandemica e neppure solo economica. È di società svuotata di cultura e democrazia.
Insomma, l’economia non è molto diversa da una religione, con le sue credenze inscalfibili che tornano comode ad alcuni «officianti », le sue devianze contronatura, i predomini sacri assegnati a pochi eletti di genere maschile. I quali, spesso, amano camuffarsi come donne e portano sempre il burqa (proibito invece alle donne dalla politica), continuando a protestare, per la platea, la massima «trasparenza». E, soprattutto nella economia finanziaria, sono riusciti persino a crearsi i propri «paradisi» esclusivi, anticipando ogni dio.
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