Kabul. Il coraggio delle donne mi fa ancora sperare
Intervista al giornalista e regista afghano Amin Wahidi: la resistenza anti-talebani, il peso delle divisioni etniche, i giochi dell'Occidente attraverso il Pakistan
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Intervista al giornalista e regista afghano Amin Wahidi: la resistenza anti-talebani, il peso delle divisioni etniche, i giochi dell'Occidente attraverso il Pakistan
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Intervista al giornalista e regista afghano Amin Wahidi: la resistenza anti-talebani, il peso delle divisioni etniche, i giochi dell'Occidente attraverso il Pakistan
Amin Wahidi è un giornalista e regista nato a Kabul. Dopo aver lavorato per la rete televisiva nazionale ATN (Ariana Television Network) creando e presentando contenuti televisivi educativi, nel 2007 ha subito minacce di morte durante le riprese de Le chiavi per il paradiso, un film a cui stava lavorando e che parla degli attentatori suicidi in Afghanistan. Oggi vive in Italia, dove ha realizzato cortometraggi come l’Ospite, vincitore del Premio Città di Venezia 2014, il lungomentraggio La Cena Persiana e il documentario Behind Venice Luxury, vincitore del premio Città di Venezia 2017. Oggi Amin è attivamente impegnato come mediattivista nel far conoscere quello che sta succedendo in Afghanistan. Lo sentiamo quasi contemporaneamente all’annuncio ufficiale della formazione del nuovo governo talebano. Accetta volentieri di darci il suo punto di vista sull’Afghanistan di oggi ma chiede di non parlare della sua vicenda personale. “Sono passati tanti anni e in una situazione del genere non mi sembra giusto distogliere l’attenzione da quanto sta succedendo in Afghanistan. Ogni personalismo crea solo distrazione”.
Amin, la presa di potere da parte dei talebani poteva essere evitata?
Senza dubbio. Ci sono diversi fattori da analizzare. Il primo riguarda il modo in cui la comunità internazionale abbia lasciato tutto il potere nelle mani un gruppo di poche persone, con doppia cittadinanza. Persone senza radici popolari, che non hanno fatto alcun investimento effettivo sulla società civile. Fino alla presa di potere dei talebani, tutto era controllato da tre persone: il presidente Ashraf Ghani (cittadino statunitense), il responsabile dello staff governativo Fazal Mahmud Fazli(cittadino svedese) e l’adviser sulla sicurezza nazionale Hamdallah Moheb (cittadino britannico). Come loro diversi altri dirigenti erano arrivati in Afghanistan senza avere nessun rapporto diretto con il popolo. Ad esempio Ajmal Ahmady, governatore della Banca di Afghanistan, è un cittadino libanese spacciato per afghano che non parla bene né dari né pashto a cui è stata data quella posizione di potere solo per rapporti personali con la moglie di Ghani, a sua volta libanese. Queste persone, tra l’altro, sono state accusate di essere scappate con milioni di dollari.
E qual è stato il ruolo della società civile?
Anche l’atteggiamento del popolo afghano è stato discutibile. Se le proteste che vedo in questi giorni ci fossero state tempo fa non saremmo arrivati a questa situazione. La gente si aspetta che qualcuno venga da fuori a fare qualcosa per loro, e questo è sbagliato. Ma ora non hanno scelta: se non vogliono questa egemonia religiosa ed etnica non possono fare altro che scendere in piazza e lottare per il proprio destino, con la sola forza del credere nella libertà.
Come siamo arrivati a questa situazione?
Questa caduta era stata di fatto preparata nel 2014. Mentre gli altri leader etnici, hazara, uzbeki, tajiki, avevano creduto nelle parole di unità nazionale, il presidente ha smantellato il Paese. Lo ha fatto in due modi: in primis disarmando le altre forze di resistenza ai talebani non pashtun e mettendosi al centro di ogni decisione militare, creando così immobilismo. Inoltre è stato a capo del comitato che ha trasferito nel 2014 il potere militare dalle forze NATO a quelle afghane. Si parla della debolezza dell’esercito, in realtà era Ghani che non voleva che venissero colpiti i talebani: avrebbe significato spargere sangue pashtun, la sua etnia. Ultimamente la Reuters ha pubblicato in esclusiva la famosa conversazione tra lui e Biden precedente al collasso. Il presidente americano chiedeva un piano difensivo, ma Ghani non gliel’ha consegnato. Perché aveva da tempo in mente un piano di evacuazione.
Qual è il ruolo del Pakistan, in quest’ottica?
Anche qui, ci sono due aspetti diversi da analizzare. Pochi giorni prima della fuga di Ghani, alcuni leader afghani non pashtun sono andati in Pakistan per spiegare alla leadership locale che le minoranze etniche afghane non andavano trattate come nemiche del Pakistan; anzi, chiedevano supporto per la costruzione di un nuovo governo che tenesse conto di tutte le comunità etniche presenti nel territorio. Quello che questi delegati non sapevano, è che Ghani aveva già incontrato il comando dell’esercito del Pakistan, per tre volte. Aveva deciso di consegnare il potere al Pakistan in cambio del mantenimento di una leadership pashtun. C’è stata una svendita del Paese, una competizione a chi lo vendeva prima e a buon mercato. Il primo ministro pakistano, Imran Khan, un ex giocatore di cricket, è anche lui un pashtun e non gli dispiace che il potere afghano rimanga nelle stesse mani.
Inoltre, se il Paese è nelle mani dei talebani, tutti i movimenti fondamentalisti che creano problemi in Waziristan potranno essere mandati in Afghanistan. Ma, soprattutto, il Pakistan potrà partecipare alla gestione delle risorse afghane e a quella degli aiuti che arriveranno da Occidente. In pratica sta giocando lo stesso ruolo che svolgeva durante la Guerra fredda. Ad esempio, sta aiutando nell’evacuazione degli stranieri ancora rimasti a Kabul. Tutto questo viene fatto in cambio di un cospicuo sostegno economico. E per gli Stati Uniti è meno costoso finanziare i pakistani rispetto al rimanere in Afghanistan.
Il tema dell’etnocentrismo è ricorrente nella descrizione che gli afghani fanno dei talebani. Eppure in Occidente ci si sofferma solo sul fondamentalismo religioso. Secondo te perché?
Da una parte tutti i media tendono a seguire quanto dice un grande giornale senza approfondire. Negli Stati Uniti si segue spesso l’opinione di Zalmay Khalilzad, afghano-americano già ambasciatore in Afghanistan e in Iraq e ultimamente, sotto Trump e Biden, rappresentante statunitense per la riconciliazione con talebani. Ora, Khalilzad e Ghani si conoscono da una vita, hanno studiato insieme in Libano e perseguono la stessa strategia. Non parlano mai di pashtun. Sempre sfruttano la parola “afghani”, anche se per loro è sinonimo di pashtun. Tornando ai media, c’è ignoranza e si affidano a lobby di intellettuali pashtun per spiegare la politica afghana. Ad esempio, troppo poco si è parlato delle resistenze nel Panjshir e a Behsud. Mi sono fatto un’idea: per essere rilevante per i media internazionali o devi avere il potere di minacciare l’Occidente o il potere per garantirne gli interessi. I pashtun hanno entrambi questi poteri.
Hai accennato alla resistenta in Behsud, di cui non si parla mai. Com’è la situazione?
Si tratta di una resistenza popolare nata per caso. Dai tempi dei massacri storici, quando sotto l’emiro Abdur Rahman Khan tutti i pashtun erano stati riuniti per uccidere gli hazara, le tribù nomadi erano state invitate a prendere le terre degli hazara. Da allora fino a oggi le tribù kochi, che sono pashtun, hanno invaso i villaggi hazara uccidendo i locali, senza alcuna resistenza dal governo. Così alcuni giovani hazara hanno iniziato a difendere i propri territori. Oggi questa resistenza combatte i talebani da sola, dopo che tra gennaio e marzo di quest’anno il presidente Ghani aveva provato a distruggerla. In quell’occasione l’esercito ha ucciso 11 civili e bruciato le case. Va detto che anche il presidente Ghani ha origine kochi e suo fratello Hashmat Ghani Ahmadzai è leader del Gran consiglio dei kochi e ha recentemente giurato fedeltà ai talebani. La resistenza hazara oggi è formata da partigiani che si nascondono e provano ad attaccare i terroristi, guidati da Abdul Ghani Alipur.
Che differenza c’è rispetto alla resistenza, più nota, del Panjshir?
La resistenza hazara è una resistenza povera, fatta di contadini che condividono il pane tra loro. Quella del Panjshir è sostenuta dal Tajikistan, che considera i combattenti dei fratelli, dall’India e forse ora da Uzbekistan e Francia, vista la grande popolarità che ha Aḥmad Shāh Massud in Francia. Inoltre hanno le armi del vecchio esercito afghano. Gli hazara, non avendo sostegni, vanno avanti solo con coraggio e determinazione, conoscendo le loro zone. Ma non hanno armi.
Che idea ti sei fatto della gestione dell’evacuazione del Paese da parte del governo di Biden?
Questa ritirata prima o poi sarebbe dovuta avvenire. Ghani ha giocato di furbizia, fingendo che l’esercito avrebbe potuto resistere altri sei mesi. Però, guardando questa nuova resistenza, penso che Biden abbia fatto la scelta giusta. Noi riteniamo che un bambino, arrivati i 18 anni, debba organizzarsi la vita da solo. Eppure in Afghanistan, grazie a 20 anni di aiuti internazionali, molte persone si erano adagiate a una vita fatta di sostegno esterno, in una eterna attesa che qualche straniero facesse qualcosa. Al contrario, credo che se si vuole salvare il Paese si debba prendere delle responsabilità, fare sacrifici, rischiare la vita per ottenere la libertà. Non ci sono angeli che ci salvano: o cambiamo la situazione noi oppure non lo fa nessuno. Tutte le rivoluzioni sono nate così. Oggi, quando vedo sui social i video che raccontano il coraggio delle donne di Kabul divento ottimista. Non me l’aspettavo, sono sincero.
Può essere la risposta alla repressione?
Sono davvero ottimista. Queste donne sono istruite, aperte, vivono in città. Ghani è scappato e ha venduto il Paese, ma le cose possono cambiare. Prevedo che possa esserci nel lungo termine una scissione tra nord e sud, o una soluzione federalista. Non è improbabile. Biden diceva che gli Stati Uniti non sono andati in Afghanistan per costruire una nazione, questa scelta spetta agli afghani, da secoli divisi e in guerra. E secondo me ha ragione, dipende da quello che vogliono fare i gruppi etnici: o vogliono vivere civilmente, con una democrazia e una relativa libertà. O vogliono stare sotto il giogo dei terroristi. Quello che vedo con le donne e con i giornalisti coraggiosi mi fa pensare che la resistenza può proseguire.
A tal proposito, quali figure stanno emergendo oggi in Afghanistan per coraggio e dissenso?
Tra le donne sicuramente Leila Haidari, che è rimasta lì e nel “sottosuolo” fa cose incredibili. Ma anche i leader Masood e Alipur possono ispirare coraggio e speranza agli altri. Al contrario, i vecchi leader della resistenza sono scappati all’estero. E poi ci sono i giornalisti come Fahim Dashti, che hanno ucciso, e Zaki Daryabi, direttore del quotidiano investigativo Etilaatroz, che coraggiosamente rimane in Afghanistan e ci informa.
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