Lukashenko “mediatore” al servizio di Mosca
Il presidente-dittatore della Bielorussia si vanta di aver fermato il capo della Wagner, ma deve tutto, anche la sopravvivenza politica, a Vladimir Putin
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Il presidente-dittatore della Bielorussia si vanta di aver fermato il capo della Wagner, ma deve tutto, anche la sopravvivenza politica, a Vladimir Putin
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Per dirla schietta, se la suona e se la canta. Alexander Lukashenko, il satrapo bielorusso, si auto-accredita come l’abile e risoluto mediatore che ha fermato la “marcia (armata) per la giustizia” della colonna dei tank “wagneriani” diretti a Mosca. Racconta orgoglioso di aver avuto sette telefonate con Putin, e di essere riuscito infine a convincere Prigozhin, ammonendolo che “altrimenti ti schiacceremo come una mosca”. Anche nella minaccia orale, emulo di Putin, che una volta proclamò che la Russia avrebbe “sputato i moscerini”, cioè tutti i nemici, anche occidentali, che fossero riusciti imprudentemente a infilarsi nella bocca della “grande madre patria”.
Ma quale “mediatore”? In realtà il “ras” di Minsk è solo un negoziatore agli ordini dello zar. Da cui dipende quasi in tutto (anche economicamente), e al quale tutto deve. A cominciare dalla permanenza al potere, come ricorda la principale leader dell’opposizione democratica, Svetlana Tikhanovkaja (marito in carcere e lei in esilio per una condanna in contumacia a 7 anni di carcere): anche se poi aggiunge che “Putin e Lukashenko sono simbiotici, hanno bisogno uno dell’altro”. Ma è certamente di Mosca la decisione di affidare alle cure dell’amico bielorusso il padre-padrone della Wagner, che gli chiedeva di defenestrare gli insultatissimi e detestati (nonché obiettivamente poco capaci) ministro della difesa Shoigu e capo di stato maggiore dell’esercito Gerasimov. Su un solo punto dei rapporti con Mosca il capo di Stato bielorusso fa melina: la volontà di Putin di creare fra i due Paesi una Federazione, come “naturale approdo” del lontano accordo di collaborazione economica che Lukashenko firmò con Eltsin, poco prima che questi lasciasse il timone dell’ex impero.
Ora il burattino bielorusso di Putin assicura che il capo-mercenario ribelle gli si è consegnato, è arrivato sul suo jet privato a Minsk, subito isolato “in una stanza senza finestre”. Ma di immagini che lo confermino, zero finora. Del resto tutti sanno che se Putin avesse deciso ad un certo punto di sbarazzarsi del “traditore” che finora ha amnistiato, una forca a Minsk può fare lo stesso lavoro di un patibolo a Mosca. Dove oltretutto si sa che I rapporti fra il presidente bielorusso e il suo nuovo “ospite” – si conoscono e frequentano da anni – non sono proprio nel segno della stima e dell’amicizia. Esempio: estate del 2020, manca qualche settimana a un’elezione, i giornali annunciano la cattura sul territorio della “Russia bianca” (è il significato di Bielorussia) di trentatré miliziani della Wagner: l’accusa è di tentata destabilizzazione del regime. Ma non se ne seppe più nulla. Probabilmente per risolvere il caso sarà bastata una raccomandazione di Putin, che allora era il gran protettore, l’ispiratore e soprattutto il beneficiario delle operazioni, anche criminali, della Wagner: dalla Siria dell’alleato Bashar Assad, al Centrafrica scrigno di diamanti.
Prigozhin, oltre alle fortune accumulate per questi interventi utili anche ai calcoli strategici di Mosca, era nel libro paga di Putin. Convinzione di molti specialisti, ma mai provata. Ebbene, ieri è stato lo stesso presidente russo a rivelare che in totale il comandante della Wagner ha ricevuto dal Cremlino 850 miliardi di euro di commesse dal ministero della difesa per nutrire i soldati dell’esercito russo (mica per niente è stato definito “il cuoco di Putin”) e quasi un miliardo di euro di materiale bellico e d’altro in un solo anno: “Spero – ha aggiunto minaccioso – che nessuno abbia rubato, e naturalmente indagheremo”. Messaggio e destinatario chiarissimi. Come dire che l’impunità di Prigozhin è legata a un filo molto sottile. La partita non è affatto chiusa. Putin ha bisogno di una rivincita totale sull’atto sedizioso, per ristabilire la sua immagine interna e internazionale. Resta da vedere che ne sarà dei miliziani che si erano votati alla rivolta. A cominciare dal numero due della Wagner: un tale Dimitry Urkin, feroce più di tutti in battaglia, nativo dell’Ucraina, che sul collo porta ben in vista la croce uncinata nazista.
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