La ricchezza economica dell’esercito golpista
Anche in Birmania fra le ragioni del sanguinoso putsch vi sono le enormi ricchezze accumulate dalle forze armate
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Anche in Birmania fra le ragioni del sanguinoso putsch vi sono le enormi ricchezze accumulate dalle forze armate
• – Redazione
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Non c’è praticamente mai stata una dittatura militare senza l’arricchimento dei suoi alti graduati. Che spesso, tra un golpe e l’altro, non rinunciano affatto al loro ruolo dominante nell’economia nazionale. Lo conservano fino al successivo putsch. E all’ulteriore arricchimento.
Un esempio classico è l’Egitto: dopo la conquista del potere da parte dei “giovani ufficiali” di Nasser nel 1956,
Le forze armate sono state sempre celebrate come il “nobile baluardo della nazione”, messosi al servizio della società civile, mentre le alte sfere dell’esercito approfittavano delle successive fasi politiche del regime (socialisteggiante con Nasser, liberalizzante col suo successore Sadat) per controllare direttamente ampi settori dell’economia nazionale (si dice fino al 40 per cento), nonché i miliardi degli aiuti militari americani. Non fa eccezione il potere antidemocratico e putschista del generale Abdel Fatah el-Sissi, che, dopo la parentesi del governo islamista liberamente eletto, ha tranquillizzato le cancellerie occidentali con un golpe che ha riproposto il suo paese come elemento di stabilità regionale. Non importa a quale prezzo in termini di repressione: sia nei confronti dei Fratelli musulmani (che hanno mostrato tutta la loro incapacità di governare) sia verso l’opposizione in generale.
Il caso più attuale è inevitabilmente quello dell’ex Birmania, ora Myanmar, dal 1. febbraio di nuovo preda, nonostante la coraggiosa resistenza della popolazione, del pugno di ferro dei suoi militari. E anche qui, come ha sottolineato un reportage di “Asia Times”, le ricchezze dell’esercito sono state una leva importante, se non decisiva, per spiegare e capire la brutale ridiscesa in campo delle forze armate. In effetti, fra le ragioni del putsch (e nonostante i generali avessero un ruolo attivo e di vigilanza sul giovane processo democratico) “c’è stato il desiderio dell’esercito di proteggere il suo patrimonio e i suoi interessi economici”. Per decenni le forze armate birmane “hanno accumulato ricchezze, attraverso un ferreo controllo della burocrazia statale e istituendo dei veri e propri monopoli in molti settori chiave”. In questo modo, attraverso aziende gestite direttamente, i generali controllano “le attività e gli investimenti in settori che vanno dal tabacco alle birrerie, dai generi alimentari alle mine, dai frantoi al turismo, dallo sviluppo immobiliare alle telecomunicazioni”. Due conglomerati di proprietà dell’esercito (la “Myammar economic corporation” e la “Myammar economic holding”) già “avevano approfittato delle privatizzazioni per impadronirsi di aziende pubbliche a prezzi stracciati”. Infine, naturalmente, la longa manu dei militari sulla produzione dell’oppio, sulle esportazioni di droghe sintetiche, e di eroina. Cifre miliardarie, da capogiro.
La “Lega nazionale per la democrazia” (Nld, il partito al governo della signora Aung San Suu Kyi, fra le prime persone arrestate) negli ultimi tempi aveva timidamente, molto cautamente, prospettato riforme e accordi internazionali per tentare la lenta demilitarizzare del paese e l’indebolimento dello strapotere economico dei generali: che in realtà rappresentano un ostacolo alla crescita complessiva di un paese che ha forti tassi di povertà nella popolazione. Anche per questo la fragile democrazia birmana è stata riportata dietro le sbarre del potere militare, violento e sanguinario. “Ciò che è chiaro – conclude l’ Asia Times – è che la lotta per la democrazia nel paese è anche una lotta contro il capitalismo clientelare dominato dall’esercito”. Messaggio chiaro alle nazioni che pensano di piegare le forze armate con sanzioni in realtà poco incisive, se non proprio di carattere cosmetico.
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